domenica 14 agosto 2011

Globalismo e Mercati, Hybris e Némesis - di: Alberto B. Mariantoni


Non è escluso che alcuni lettori, già prima di iniziare a percorrere il testo di questa mia riflessione, possano eccepirmi: ma che c’entrano delle nozioni culturali dell’antica Grecia (come ὕϐρις/húbris/hybris = dismisura, eccesso, oltraggio; e Νέμεσις/ Némesis = la collera o la vendetta divina), con le umilianti e mortificanti fregature che il cosiddetto “Mercato globale” continua quotidianamente a dare al “Popolo-bue”?

Capisco l’eventuale sorpresa, ma se una tale correlazione potrebbe apparire ai più come una specie di forzatura letteraria, coloro che avranno il tempo e la pazienza di seguire il mio ragionamento, potranno facilmente accorgersi che quelle nozioni c’entrano. Altroché se c’entrano!

Prima, però, di poterne scoprire l’eventuale concatenazione, cerchiamo di fare il punto della situazione, incominciando con il focalizzare e decifrare il primo soggetto di questa analisi: il “Liberismo”.

Questa “scuola di pensiero” (prettamente ideologica, e poco economica, mi permetto di sottolineare), tende a caratterizzarsi, in generale, per la sua fedeltà e sottomissione a tre dogmi fondamentali:

1. “Nel campo economico esiste un ordine naturale che tende ad organizzarsi spontaneamente, purché gli individui siano lasciati liberi di agire, ispirandosi ai loro propri interessi.

2. Quest’ordine naturale, è il migliore, il più capace di assicurare la prosperità delle nazioni; è superiore a qualsiasi altro ordinamento artificiale che si potrebbe ottenere attraverso l’impiego di leggi umane.

3. Non esiste nessun antagonismo, ma armonia tra i diversi interessi individuali, e l’interesse generale concorda ugualmente con gli interessi individuali. Questa armonia, forma l’essenza stessa dell’ordine naturale” (Pierre Reboud, “Précis d’Economie Politique”, Tome premier, Dalloz, Paris, 1939, pag. 52).

Ora, senza dover superfluamente dare risalto al fatto che qualsiasi dogma è semplicemente la più grande offesa che si possa perpetrare nei confronti dell’intelligenza umana, vediamo cosa diceva, a proposito del “Liberismo”, il Dizionario di filosofia e scienze umane di Emilio Morselli, edito da Signorelli, a Milano, nel 1988: “Liberismo (o Liberalismo Economico): teoria secondo cui il modo migliore per promuovere lo sviluppo economico è quello di lasciare l’iniziativa privata in piena libertà d’azione, escludendo ogni ingerenza artificiale da parte dello Stato. Ipotesi di fondo del liberismo è l’esistenza di un ordine naturale in campo economico analogo a quello del mondo fisico; ne derivano due postulati: a) la concorrenza perfetta premia i migliori ed elimina i cattivi operatori; b) il meccanismo naturale dei prezzi che, in regime di libera concorrenza, trova il proprio freno nella legge della domanda e dell’offerta. Queste tesi del liberismo classico, elaborato dai grandi economisti settecenteschi (A. Smith, D. Ricardo, T. Malthus), non trovano più riscontro nella realtà economica moderna, sia nelle premesse che nelle conseguenze”.

Appena 23 anni fa, quindi, il “Liberismo” era ufficialmente morto o considerato un qualcosa che, in tutti i casi, non trovava “più riscontro nella realtà economica moderna, sia nelle premesse che nelle conseguenze”.

Dagli anni ’90 del secolo scorso ad oggi, invece, si continua a cercare di convincere l’uomo della strada che il medesimo “Liberismo” sarebbe il nec plus ultra del progresso e dello sviluppo delle nostre società.

Questo, nonostante che i suoi suddetti dogmi – ciclicamente attivati e, ogni volta, testardamente ed illogicamente messi in pratica (in particolare, tra il 1852 ed il 1890; tra il 1911 ed il 1915 e tra il 1920 ed il 1930, con i “risultati” che conosciamo…), irragionevolmente riproposti (negli anni 1950/1960, dalla “scuola di Chicago”: Milton Friedmann, Feldstein, Moore, etc.) e, dal 1992 (cioè, dopo la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell’ex Unione sovietica), politicamente propagandati e fideisticamente diffusi come indiscutibili ed incontestabili – abbiano, nel loro ricorrente confronto con la realtà, invariabilmente “toppato” su tutta la linea e si siano costantemente ed immutabilmente rivelati per quello che in realtà sono e sono sempre stati: una semplice mega-truffa planetaria, ai danni dell’uomo della strada, da parte dei soliti noti!

Vedremo, tra poco, il perché quei dogmi sono una semplice frode.

Cerchiamo, ora, di individuare ed approfondire le principali peculiarità del secondo attore di questa analisi: lo “Stato” o gli “Stati”.

Thomas Hobbes, nel suo Leviatano (1651), ci dice che “lo Stato rappresenta l'istanza unitaria e sovrana di neutralizzazione dei conflitti sociali e religiosi attraverso l'esercizio di una summa potestas, espressa attraverso la forma astratta e universale della legge che si legittima in base al mandato di autorizzazione degli individui, in cui si realizza il meccanismo della rappresentanza politica”.

In che consisterebbe, in particolare, quella sua summa potestas?

Consiste soprattutto nel fatto che qualsiasi Stato (dal lat. statum = ‘condizione’, ‘posizione’; riepilogativo di: status civitas = ‘Stato della città’, o status rei publicae = ‘Stato della cosa pubblica’) è, per antonomasia, simultaneamente sovrano, indipendente e spersonalizzato.

E’ sovrano, in quanto è superiore (dal lat. sŭpĕrans, antis = ‘predominante’; da cui, il tardo lat. superanus, a, um = ‘soprano’ o ‘che sta sopra’, ed il francese souverain = sovrano) ad ogni altro soggetto politico, economico, sociale, giuridico (individuale o collettivo) che esiste ed agisce all’interno dei suoi confini politici. E’ indipendente (in = negazione di, dipendente: quindi, che ‘non è soggetto a vincolo di nessun genere, da parte di nessuno’), in quanto, nei rapporti con altri Stati, non accetta – se non in modo concordato e consensuale (dopo essere stato, come minimo, preventivamente autorizzato da un referendum popolare) e su un piano di ordinaria reciprocità ed equità – nessuna rinuncia alle sue prerogative. E’ spersonalizzato, in quanto – qualunque sia o possa essere la rappresentanza politica che il Popolo-Sovrano ha occasionalmente scelto per far gestire o amministrare la cosa pubblica – è sempre il Governo pro tempore della Nazione che ha l’obbligo di conformarsi ai fondamenti dello Stato (che sono stati preventivamente espressi dalla volontà popolare, condensati nei termini della sua Costituzione e continuano ad essere difesi e garantiti dalle sue leggi), e non il contrario.

Intendiamoci, il Governo di una Nazione può pure decidere di cambiare i fondamenti dello Stato a cui appartiene, ma prima deve comunque chiederne l’autorizzazione e l’avallo da parte del Popolo-Sovrano.

A questo punto, per permettere a chiunque di potersi davvero rendere conto che anche la teoria dello Stato – a causa dell’accettazione incondizionata dei dogmi del “Liberismo” da parte della forze politiche (al Governo ed all’Opposizione) delle nostre Nazioni – è diventata una semplice truffa ai danni del cittadino, è sufficiente porsi queste semplici domande:

1. E’ mai possibile, ad esempio, che l’insieme delle forze politiche di una Nazione – che ufficialmente dovrebbero operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato che esse stesse rappresentano ed amministrano – per cercare di forzare le realtà oggettive dei nostri Paesi e farle coincidere con i dogmi dell’ideologia (il “Liberismo”) nella quale credono o si identificano, si sforzino principalmente di sottomettere i nostri Paesi alle cosiddette “Leggi del Mercato” e, favorendo la speculazione finanziaria internazionale, privino arbitrariamente da un lato i cittadini e lo Stato della loro inalienabile sovranità e, dall’altro, facciano addirittura pagare, a questi ultimi, i ripetuti e costanti fallimenti della loro astratta ed inattuabile teoria ideologica?

2. Se uno Stato, per poter ordinariamente esistere ed operare, non solo accetta – sulla base della medesima ideologia “liberista” – di rinunciare a “battere moneta” (che è una delle due prerogative del Principe, assieme al ‘monopolio dell’utilizzo della Forza armata’), ma è nientemeno costretto a chiedere in prestito dei capitali sul mercato libero, c’è ancora da domandarsi le ragioni per cui il nostro debito pubblico (assieme agli interessi che debbono essere pagati sul medesimo debito), è sempre più esponenziale, fino a diventare strutturalmente inestinguibile?

3. E’ accettbile che uno Stato, su sollecitazione di un qualunque Governo in carica, prenda l’iniziativa di scatenare una vera e propria caccia all’evasione fiscale – fino al parossismo di appostare degli agenti della Guardia di Finanza fuori dai Bar dove andiamo a bere un caffè o mangiare un tramezzino, per controllare de visu se abbiamo o no il relativo scontrino della nostra consumazione, ed allo stesso tempo – non conosca (o faccia finta di non conoscere) il nome ed il cognome (o la personalità giuridica o morale) degli speculatori internazionali che, come se niente fosse, spostano, ogni giorno, migliaia di miliardi di dollari o di euro, da una borsa all’altra del Pianeta, facendo fallire (se il caso si presenta) intere economie nazionali, senza che questi ultimi possano essere in qualche modo identificati, recensiti e tassati, come qualunque altro cittadino del mondo, sia sui loro capitali che sui loro ingenti profitti?

Se tutto ciò è ammissibile e tollerabile, viene spontaneo domandarsi: a cosa servono gli Stati se non a continuare indebitamente a sgassare i cittadini per conto terzi e raschiare il fondo del barile dei nostri introiti e dei nostri risparmi, per permettere a chi è già ricco di diventare più ricco, con l’appoggio incondizionato ed il sostegno pratico della Forza pubblica che dovrebbe essere, invece, il principale baluardo della nostra tutela?

Ed aggiungo: qualora tutto ciò sia davvero ineluttabile (come spesso cercano di convincerci…), allora, aboliamo gli Stati. Mettiamoci tranquillamente l’anima in pace ed accettiamo, di buon grado, di farci direttamente governare dalle strutture della speculazione internazionale. Così, almeno, avremo come minimo economizzato l’insieme dei costi astronomici della politica che, come abbiamo già visto, serve esclusivamente a farci meglio depredare dagli innominabili ed insaziabili manovratori della finanza cosmopolita!

Prendiamo, per concludere il nostro giro d’orizzonte, il terzo ed ultimo attore di questa medesima disamina: “l’Uomo”.

Che cos’è l’Essere umano? E’ quell’individuo (dal lat. individuus, a, um: quell’aggettivo, cioè, che non potrà mai essere o diventare soggetto di se stesso!) che serve esclusivamente al “Liberismo”, per avere al suo cospetto quella massa indefinita di produttori e di consumatori non organizzati e, quindi, imporre unilateralmente le sue regole del gioco all’insieme dei prestatori d’opera ed il suo monopolio (settore per settore) nel campo dei prodotti e dei prezzi? Oppure, è l’anathrôn-ha-opôpé dei Greci: quell’essere animato, cioè, diverso dagli altri animali, che ragiona ed è sensibile?

In quest’ultimo caso, come è falice desumerlo, sarebbe praticamente impossibile continuare a considerarlo uno dei tre fattori della produzione e seguitare altresì a compararlo agli altri due che sono – come tutti sanno – la “tecnologia” ed il “capitale”.

Chi ha mai visto, infatti, fino ad oggi, piangere o ridere, esaltarsi o disperarsi, amare o odiare, provare simpatia o antipatia, affinità o diffidenza, affetto o repulsione, gioia o dolore, un tornio o un cassetto pieno di soldi?

Eppure, i bricconi di cui sopra – vista l’attiva ed interessata complicità della Casta politica (di destra, di sinistra e di centro) del nostro Paese e dei Media (i valvassini dei precedenti) che ne amplificano studiatamente le “gesta” e la “parola” – sembrano comunque essere riusciti a far credere ai cittadini delle nostre società, perfino una tale insostenibile bizzarria!

Convincendo l’uomo della strada che ciò che custodiva o teneva in tasca era più importante di lui, i principali sostenitori dell’ideologia “Liberista” hanno semplicemente permesso che fosse apertamente e legalmente perpretato nei suoi confronti, il più grande e ripugnante dei crimini che la Storia abbia fino ad oggi conosciuto: quello, in particolare, di trasformare psicologicamente il medesimo essere umano – originariamente soggetto e finalità della Storia, della Politica e dell’Economia – in volontario ed inconsapevole oggetto di un’astratta e nefasta ideologia che, ponendo il danaro al centro della società, ha ridotto l’Uomo ad una semplice cosa o bene mobile. E, come tale, lo ha reso suscettibile di essere assunto a discrezione ed al minor prezzo possibile, nonché licenziato in tronco, in qualsiasi momento, senza nessun preavviso, né valido motivo, ed affidato unicamente al buon volere delle “Leggi della domanda e dell’offerta”. Il tutto, ovviamente, per permettere ai principali promotori ed organizzatori del cosiddetto “Mercato globale” di ottenere, anche nel contesto del cosiddetto “Mercato del lavoro” (come se l’Uomo potesse essere comparato ad un chilo di patate o di zucchine…) – con l’appoggio diretto o indiretto dei Sindacati embedded ed il connivente e prezzolato avallo dei responsabili dei nostri Governi e dei nostri Stati – il massimo del profitto!

Ecco, dunque, anatomizzata e resa intelligibile anche quest’ennesima truffa che il “Liberismo” ha riservato alle nostre società.

Conoscendo, ora, la natura ed il ruolo reale dei diversi attori di quest’abominevole e grottesca rappresentazione epocale che abbiamo ormai l’abitudine di definire il mondo contemporaneo, chiunque, tra i lettori di quest’approfondimento, potrà, da questo momento, agevolmente individuare e facilmente riconoscere l’hybris a cui mi sono riferito all’inizio di quest’articolo.

Detto altrimenti, in che consisterebbe, dunque, la dismisura, l’eccesso e/o l’oltraggio del “Liberismo” nei confronti dei cittadini dei diversi Stati del mondo?

A mio avviso, consiste principalmente nel far credere al solito “uomo della strada” (ingenuo e sprovveduto per definizione) che la medesima “mano invisibile” che dovrebbe immancabilmente contribuire ad arricchire ognuno di noi (ma, in realtà, rimpingua soltanto qualcuno, impoverendo sempre di più – salvo le classiche eccezioni che confermano la regola – chi è già povero o diseredato!), è ugualmente responsabile – di tanto in tanto (sic!) – delle crisi economiche (come se queste ultime fossero un casuale o involontario incidente della vita e della Storia…) che, da all’incirca due secoli e mezzo, continuano ciclicamente ad affliggere e tormentare l’insieme delle nostre società.

Questo, quando chiunque abbia un minimo di infarinatura a proposito dell’Economia politica, sa benissimo che il cosiddetto “Libero mercato”:

- E’ solo ed esclusivamente il “Mercato” delle Multinazionali e dei Trust finanziari che tende invariabilmente a spazzare via i singoli operatori. In altri termini: per un Bill Gates (il Sig. “Avviso Porte”, si potrebbe liberamente tradurre in italiano!) che riesce a fare fortuna dal nulla, quanti “poveri cristi” ci lasciano le penne, cercando o sperando di poterlo davvero diventare? E se, per pura ipotesi, tutti riuscissimo a diventare Bill Gates che valore avrebbe essere un Bill Gates?

- E’ come un “fiume in piena”, a cui se non vengono preventivamente e drasticamente innalzati gli “argini” della morale societaria e della legge, distrugge tutto al suo passaggio; mentre invece, se “incanalato” precauzionalmente all’interno delle succitate “barriere di contenimento” ed inframezzandogli sul suo percorsco magari una turbina, è in grado di produrre altra energia, ed ancora altra energia (l’esempio più conosciuto, a quanto ne so io, sembra essere stato il miracolo economico italiano degli anni ’30).

- Produce sistematicamente delle situazioni economiche, nelle quali i prezzi delle differenti Nazioni tendono sempre ad allinearsi su i più alti ed i salari su i più bassi.

- Tende regolarmente a monopolizzare i guadagni ed a socializzare le perdite. In altre parole, ciò che i vari promotori ed organizzatori del “Mercato globale” riescono a rapinare all’interno di uno Spazio economico, lo tengono in larga parte per sé; e quando il medesimo “mercato” che hanno precedentemente investito incomincia inevitabilmente a saturarsi, licenziano le maestranze e delocalizzano le loro imprese, lasciando sulle braccia dell’intera società, le spese e gli oneri economici e sociali dei danni che, con il loro ordinario agire, sono riusciti a realizzare.

- Agisce sistematicamente, nei confronti dei diversi Spazi economici del mondo, come l’andirivieni incessante ed incontrollabile delle maree: vale a dire, ruba qui e porta lì; poi, ruba lì e porta qui; dopo ancora, ruba di nuovo qui e porta di nuovo altrove; etc. All’infinito. Con la differenza che questa volta (cioè, da una quindicina di anni a questa parte), il cosiddetto Occidente (Stati Uniti, Europa, Giappone ed alcuni Paesi del Sud-Est asiatico) non potrà affatto essere in grado – dopo aver impoverito le nostre Nazioni (nonostante tenti di far ridurre i salari dei nostri lavoratori, al medesimo livello di quelli che vengono attualmente praticati in Cina ed in India) – di defraudare gli ex-Paesi emergenti (diventati, ormai, a pieno titolo, delle vere e proprie potenze, finanziarie, bancarie, industriali, commerciali e logistiche), per due semplici ragioni: la prima è che l’Occidente ha ormai perduto – a netto vantaggio della Cina e dell’India (insomma, per fare più soldi, l’Occidente ha venduto a quei Paesi, perfino la “corda per farsi impiccare”!) – il monopolio dei suoi cinque tradizionali pilastri economici: la finanza, la banca, l’apparato industriale, le infrastrutture commerciali e quelle dei trasporti; la seconda, è che – sarà bene tenerlo a mente – la Cina e l’India sono due potenze nucleari, a cui sarà molto difficile, in un prossimo futuro, cercare di togliere il “tappetino” da sotto i loro piedi, per tentare di scippare le loro attuali e future ricchezze, nella speranza di poterle, un giorno, ri-portare in Occidente!

Individuata chiaramente l’hybris, è sufficiente fare mente locale, per capire la valanga di bugie che ogni giorno ci vengono raccontate dai nostri “politici” e sistematicamente rilanciate sul mercato dai vomitevoli e supersperimentati pennivendoli del medesimo sistema, per cercare di farci tranquillamente o inconsapevolmente trangugiare l’amara pillola del nostro, ormai (nella sopraindicata situazione), impossibile futuro…

Gli Stati e gli Istituti bancari del cosiddetto Occidente (Italia ed Europa comprese), da circa 10/15 anni, sono quasi tutti in fallimento o, nel peggiore dei casi, in semplice e celata bancarotta fraudolenta. Il denaro (quello vero) essendo, nel frattempo, filato via, come era naturale che fosse, in quelle parti del mondo che gli possono più facilmente garantire di potere largamente decuplicare o centuplicare, in rendite e profitti, le somme inizialmente investite.

Cosa ci fanno credere, invece, i nostri “politici”? Ovviamente, che da noi tutto va bene! Anzi, meglio…

Vediamo il funzionamento dei loro premeditati e criminali marchingegni finanziari.

I nostri Stati – ormai irrimediabilmente asserviti alle Caste politiche bipartisan che sono al servizio del “liberismo/globalismo” – per tentare di tenere la “bocca fuori dell’acqua” alle popolazioni dei nostri Paesi e non farle immediatamente ed irrimediabilmente affogare, travolte dai debiti, nell’insolvibilità e nel caos, emettono dei Buoni del tesoro (cioè, dei pagherò a breve o lunga scadenza, su cui lo Stato stesso dovrà, presto o tardi, pagare degli interessi) e li affidano a delle banche private (Bankitalia o BCE o Federal Reserve = kif, kif!). Le medesime Banche, dal canto loro, per simulare un formale pagamento, danno in cambio ai nostri Stati, dei bellissimi biglietti di carta colorati e stampati che sono concessi in locazione, al loro valore facciale, ai nostri Ministeri del Tesoro che a loro volta, dopo averci pagato il famoso “signoraggio” (altri debiti, per il contribuente), li incamerano sotto forma di moneta contante e li utilizzano per “tappare i buchi” più urgenti che sono stati precedentemente generati dalla loro medesima gestione del Paese.

Da un punto di vista contabile, le due vicendevoli operazioni di cassa non sembrano fare una piega: entrambi gli “attori” (gli Stati + le Banche) di questa moderna commedia dell’arte, depositando ufficialmente nei loro forzieri i rispettivi foglietti di carta colorati e considerandoli come dei veri e propri attivi, sono in grado di presentare, agli eventuali audit pubblici o alle più mediatizzate Agenzie di rating, dei corretti bilanci. Al punto che ambedue gli “attori” possono continuare ad apparire – agli occhi del profano (ma non degli speculatori borsistici!) – come dei soggetti economici e giuridici perfettamente solvibili.

Ma chi pagherà, alla fine (questo, naturalmente, nessuno ce lo dice!) il loro ingegnoso “giochino” delle suddette reciproche “cambiali”? Noi. Semplicemente noi! Gli “scemi del villaggio”… Con l’acre e spossante sudore della nostra fronte ed i nostri immani, quotidiani ed ingiusti sacrifici.

Ci sarebbe da evocare altre ed infinite bugie, come quelle, ad esempio, relative al supposto “rilancio” dell’economia dei nostri Stati, abbassando i salari, diminuendo le spese pubbliche, abolendo gli assegni sociali, togliendo le tasse alle imprese, alzando l’età pensionabile, decurtando le pensioni già esistenti (non quelle milionarie dei “signori della politica”, chiaramente!) ed eliminando la loro reversibilità per i poveri vedovi e vedove; oppure, come quelle riguardanti il “rilancio” della produzione dell’auto (se anche riuscissimo a regalare, a costo zero, 1 milione di vetture ai primi che ne facessero richiesta, dove le parcheggeremmo e come faremmo, ormai, a circolare sulle nostre strade o all’interno delle nostre città?), permettendo contemporaneamente ad un qualunque Marchionne di turno di riportare la figura ed il ruolo del lavoratore, alla medesima miserevole condizione di semplice bestia da soma, senza nessun diritto, descritta da Marx, nella prima parte del suo Capitale; o ancora, come quelle concernenti il “riassorbimento” dell’attuale disoccupazione, cercando di accogliere, a più non posso, all’interno di un “bicchiere” chiamato Italia o di un “boccale” chiamato Europa, l’immenso e brulicante Oceano di miseria che il “Liberismo” stesso, con le sue guerre (per la pace) e lo sfuttamento capillare dell’insieme delle risorse dei Paesi del Terzo mondo, ha provocato sul nostro Pianeta. Ma fermiamoci qui…

Avendo capito (spero…) quanto mi sono permesso fino ad ora di evidenziare, il lettore, en passant, avrà altrettanto compreso il significato ed il senso della némesis greca o, se si preferisce, della collera o della vendetta divina a cui ho ugualmente fatto riferimento all’inizio di questa mia riflessione.

Intendiamoci, però. Chiunque sia riuscito a focalizzarne ed afferrarne il concetto, non mi venga ugualmente a chiedere, per cortesia, in che modo o maniera mettere in pratica la sua individuale collera e vendetta nei confronti dei delinquenti di cui sopra e di quanti, fino a questo momento, hanno legalmente permesso a questi ultimi di esercitare impunemente la loro “arte criminale”: quella, cioè, che ci sta letteralmente e collettivamente portando alla rovina, se non facciamo nulla per fermarla.

L’unica cosa che posso consigliare al lettore in questo contesto, è che le nostre possibili ed inesorabili rivincite e le eventuali e sacrosante sanzioni che dovranno comunque essere inflitte ai responsabili della catastrofe generalizzata che – da tempo, ormai – siamo costretti a subire e sopportare sulla nostra pelle, potranno davvero essere realmente esercitate, soltanto quando riusciremo ad avere il coraggio civile e morale di deporre momentaneamente al guardaroba le nostre reciproche “fisse” ideologico-politico-partitiche-religiose. Dopo di ché, mettendo assieme la totalità delle nostre forze e delle nostre capacità e competenze, potremo essere senz’altro in condizione di ribellarci e di combattere e sconfiggere qualunque nemico. E questo, per poterci finalmente liberare dall’assurda e nefasta iattura del “liberismo/globalismo” e riconquistare, per noi ed i nostri figli, nonché per i figli dei nostri figli, le irrinunciabili e, fino ad oggi, furbescamente estorte o ladronescamente defraudate prerogative di libertà, indipendenza, autodeterminazione e sovranità politica, economica, culturale e militare che – fino a prova del contrario – spettano, per diritto naturale, a qualsiasi Popolo-Nazione del mondo che ancora sia in grado di essere cosciente e degno di questo nome!

Alberto B. Mariantoni



sabato 13 agosto 2011

L'Era della Rassegnazione? (Un articolo di Marco Tarchi - da meditare)

L'ERA DELLA RASSEGNAZIONE (da La Roccia di Erec - Idee - Diorama n. 303)
Chi ha più di trentacinque anni, e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del muro di Berlino. Quella data dell’ottobre 1989 parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta, e il crollo dell’impero sovietico che di lì a poco ne seguì non fece che confermare la prima impressione. Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti. Nelle ristrette ma vivaci cerchie che si attribuivano l’etichetta del non-conformismo e non avevano mai digerito molte delle conseguenze del disastroso secondo conflitto mondiale, a partire dal soggiogamento dell’Europa alle due superpotenze e dalla sua vertiginosa perdita di influenza sullo scacchiere planetario, si arrivò a supporre che si dovessero abbandonare le elucubrazioni sulla possibile costruzione di una Terza via di organizzazione della società diversa dal liberalismo e dal socialismo e si dovesse passare con urgenza alla riflessione su una Seconda via, dal momento che a rimanere in piedi era ormai quasi solo quel modello politico-culturale che si era dato – abusivamente ma efficacemente – il nome di Occidente e si fondava, per dirla con le parole di un analista che pure non ne è un critico prevenuto, su “una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane”.[1] Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, si pensava, la partita si sarebbe giocata tra quella vecchia formula che tante cattive prove aveva dato di sé e una visione alternativa ancora in gran parte da costruire, ma di cui esistevano i presupposti. Sgretolate le fondamento dell’esaurita dicotomia sinistra/destra, molte e sino ad allora disperse energie sarebbero confluite attorno a un progetto che all’individualismo opponeva la solidarietà organica, la tutela dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli; al cosmopolitismo omogeneizzante che faceva da sostrato all’internazionalismo opponeva l’elogio delle identità plurali e della diversità culturale; al dominio dell’economia sulla politica opponeva non solo il rovesciamento di quel rapporto ma anche il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali e di “qualità della vita”, in ogni campo.
Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni, che a volte appaiono risibili persino a una parte di coloro che li avevano alimentati. Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune. Al bipolarismo che aveva fondato un condominio sul pianeta si è sostituita una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo nel proposito, fin qui incompiuto, di affermare un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto. I guasti di un capitalismo sempre meno umano e produttivo sono stati moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere finanziario, che con la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale. L’esplosione dei flussi migratori di massa ha assecondato le aspettative di chi, da molto tempo, esaltava le società multietniche per le loro capacità di dissolvere le “barriere” identitarie e disgregare le appartenenze a gruppi stabili, in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è l’individuo. La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione di una dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda.
E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo – ipocrita e a geometria variabile secondo le convenienze del momento – ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per il voto “sbagliato” del corpo elettorale, sono additate alla pubblica esecrazione.
In questo scoraggiante panorama, i “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé. Hanno iniziato alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra e largamente predominanti nelle università e nell’editoria, che nel volgere di pochi anni si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una serie disarticolata di versioni progressiste del modello occidentale. E nel loro caso il tragitto non è stato particolarmente disagevole, date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato esternazioni, conversioni, ripensamenti, prese di posizione. Più accidentato, ma non troppo dissimile nella direzione di marcia, è stato l’itinerario delle molto più esigue truppe che avevano mosso sino ad allora i propri passi in un perimetro convenzionalmente definito “di destra”. Qui, ad attraversare le linee per primi non sono stati i pochi che si erano scelti ruoli di intervento culturale –di fatto, un pulviscolo di soggetti, mai fra di loro troppo coesi, il cui raccordo passava solo dalla collaborazione alle modeste testate giornalistiche “di area” – ma gli esponenti politici, ansiosi di cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità, da sempre irraggiungibile albero della cuccagna. Per appagare la peraltro comprensibile aspirazione, costoro non si sono fatti scrupolo di abbandonare quasi immediatamente i segni più evidenti dell’imbarazzante diversità coltivata nel tepore della nicchia in cui avevano trascorso decenni, e con lo stesso vigore con cui in precedenza avevano respinto come eretiche le proposte di evoluzione e riflessione autocritica che erano state loro rivolte da navigatori borderline del loro bacino d’utenza, hanno abbracciato la via di ben più decise e spudorate abiure. Gli “intellettuali d’area” li hanno seguiti a distanza, a volte con disagio, a volte con la vana speranza di vedersi riconosciuti ruoli di precursori e mentori.
Sarebbe fuori luogo – non in assoluto, ché anzi una storia di queste transumanze dovrà pur essere scritta un giorno, senza furori ma anche senza compiacenze, ma in questa sede – tracciare momenti e tappe di questo ripiegamento convergente, da sinistra e da destra, verso quel “centro medico” (per dirla con il Cacciari dei tempi belli) liberale che ha fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico e ha piegato quel poco che ne resta ai propri fini, facendone lo spauracchio delle “nostalgie del totalitarismo” utile a zittire ogni voce di radicale dissenso. Ci vorrebbero troppo tempo, troppo sforzo di memoria, troppa documentazione, troppa cura dei dettagli. Ma quanto mai opportuno è descrivere il punto di arrivo di quel percorso, a cui non si può dare che un nome: l’avvio di un’era della rassegnazione. Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana. Rassegnazione ad accettare, in un primo momento, la mentalità diffusa del nostro tempo come immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi. Rassegnazione a pensare che, in fondo, a Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male. E, soprattutto, rassegnazione a rinunciare a ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa cosa si lascerebbe ma non cosa potrebbe scaturire dal cambiamento.
È per questo che, a sinistra come a destra, anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose. E prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitivi e inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente. Criticare l’americanismo? È fuori moda. Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di occidentalizzazione del mondo? Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo. Indignarsi di fronte ai crimini che Usa ed alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano? Sa di litania risaputa. Prendersela con la Nato, con l’Onu, con il profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che Christopher Lasch fustigava? Appare, a seconda dei casi, sconveniente o inutile.
Dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo in cui l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato. All’orizzonte non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate. C’è chi ha, con riferimento alla visione del mondo “specialmente forte nell’Europa occidentale” cui sopra facevamo riferimento, ha creduto di individuare nel voto crescente per formazioni politiche populiste un segnale di reazione, poiché quella visione “agli occhi delle popolazioni europee appar[irebbe] ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali”, e ne ha tratto la conclusione che “le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico-telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli – cioè, nella maggioranza –, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti”[2].
Può essere. Ma, a parte il fatto che questa rappresentazione dei fatti continua a perpetuare l’immagine di una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: una sorta di relitto – portata a resistere a tendenze che, evidentemente, i forti, i giovani, gli istruiti accolgono con favore se non con entusiasmo, quasi che fossero foriere di effetti positivi, il problema è che quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli. E, parimenti, nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi in uno zoo: occuparsi giorno per giorno della sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine.

NOTE
[1] Ernesto Galli della Loggia, La frattura culturale, in “Corriere della Sera”, 20 aprile 2011, pag. 1. Il riferimento qui è alle élites che indirizzano l’azione dell’Unione europea, ma ci pare si possa estendere senza abusi al modello generale che le ispira.
[2] Ibidem.

[tratto da Diorama letterario n. 303]

martedì 26 luglio 2011

BUON COMPLEANNO A LA DESTRA (Un articolo di Francesco Storace)

26 lug 2011

Quattro anni fa nasceva La Destra. Sfogliammo il calendario assieme a Teodoro Buontempo e a un gruppo di uomini e donne e ci vedemmo con un notaio per approvare lo statuto della fondazione.
Ricordo con emozione quella giornata del 2007 in cui in molti decidemmo una svolta coraggiosa alla nostra vita. Scegliemmo il 26 luglio e non il 25, che ricordava il tradimento…. E quanti ne avremmo incontrati lungo la nostra strada di traditori….
Ora, quattro anni dopo, siamo gia’ alla vigilia del secondo congresso nazionale, non ne esistono partiti cosi’ rispettosi delle regole. Ci vedremo a Torino, a novembre.
La mente va ai sacrifici compiuti dalla nostra gente. Non e’ stato facile per nessuno resistere alle lusinghe, alle promesse di carriere facili, e se qualcuno di noi oggi e’ nelle istituzioni regionali – Lazio e Campania - e’ perche’ ci abbiamo creduto, abbiamo faticato, ce lo siamo conquistato il diritto a esistere.
Esistere: ce lo negava Gianfranco Fini. Che prima mise il veto a noi e ci fece buttare fuori dal Parlamento; e poi lo mise a Berlusconi. Ma gli e’ andata male all’ex-capo della destra italiana. Noi non siamo morti e il cavaliere e’ sempre la’, a palazzo Chigi. Anche se ammaccato, sta sempre meglio del presidente della Camera, il cui inesistente futuro e’ sotto gli occhi di tutti.
Ora dovremo decidere per il domani. Il congresso sara’ decisivo per noi e non ci potremo permettere di sbagliare. Va ricreata la destra del popolo italiano, che non e’ un miscuglio di estremismi che a furia di rivendicare modelli scandinavi magari si trovera’ a dover spiegare che differenze ci sono con un pazzo che scanna cento persone in Norvegia. No, noi siamo la destra della Patria che non rinuncia alla propria storia e alla propria identita’, e che guarda al futuro puntando ad affermarsi con le armi della democrazia e non con quelle del terrore.
Dovremo scegliere la classe dirigente. E un partito e’ forte soprattutto quando puo’ prescindere dai nomi. Non e’ obbligatorio che sia io a guidare ancora il movimento. Quando lo fondai quattro anni fa, non c’erano i problemi di oggi, si poteva puntare a veleggiare. Questo e’ un partito – come tutti i partiti di destra – ricco di individualita’. Ma quando le individualita’ sfociano nel personalismo, l’errore e’ vicino. Per continuare a guidarlo ho bisogno di avere le spalle coperte da chi punta il mirino all’esterno e non all’interno. Chi pensa di avere avversari nel partito, fa bene a votare un altro segretario. Chi vuole che sia ancora io, lavori al progetto politico e non solamente a se stesso. La base di partenza, per me, e’ chi sta nelle istituzioni. Senza gli eletti – pochi che siano – non si riparte.
Francesco Storace

venerdì 1 luglio 2011

LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA AUMENTA L’ADDIZIONALE SULLA RCAUTO:

LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA AUMENTA L’ADDIZIONALE SULLA RCAUTO:
3.000.000 EURO IN PIU’ presi dalle tasche di Automobilisti e Autotrasportatori
Approfittando di una delle possibilità offerte da uno dei decreti attuativi del federalismo fiscale, le Province possono mettere le mani in tasca ai cittadini “amministrati” in modo legale e quanto mai certo. La Legge dà facoltà alle Province di aumentare l’addizionale che già si paga sulla Polizza per l’Assicurazione su tutti i veicoli a motore (la RC Auto) ed oggi fissata al 12,50% dell’ammontare del premio pagato fino a un massimo di 3,5 punti in più, cioè fino al 16%.
In realtà la Legge darebbe anche la facoltà di diminuire l’addizionale, ma questa ipotesi non sembra sia allo studio di nessuna giunta Provinciale. La maggior parte sono incerte sull’aumento o no, o meglio sull’entità dell’aumento.
Fra tutte però spicca la Giunta della Provincia di Alessandria che ha deciso di proporre l’aumento massimo: 3,5% in più, per un totale di 3Milioni di €uro in più tolti dalle tasche degli automobilisti e degli Autotrasportatori della provincia di Alessandria. Per Gianfranco Comaschi, assessore al Bilancio della provincia di Alessandria, i 3 milioni che arriveranno dall'aumento dell'imposta sono indispensabili. «Quest'anno – dice – ci siamo trovati davanti un taglio dei trasferimenti statali di 3,4 milioni, la leva fiscale è una scelta obbligata».
"Ma non si era detto di abolire le Province?", si chiede Aldo Rovito, segretario provinciale de La Destra di Alessandria, "anche perchè non si capisce tanto bene a cosa servano, se non ad aumentare la spesa clientelare a creare incarichi e a dispensare consulenze; il danno che questo aumento causerà all'economia della nostra Provincia sarà notevole: tutti coloro che usano l'auto per lavoro ne saranno danneggiati, ma non solo loro: avranno aumento dei costi tutte le aziende di trasporto che immatricolano gli autoveicoli nella nostra Provincia: le conseguenze saranno subite da tutti i consumatori perchè l'aumento delle spese di trasporto, farà aumentare il costo delle merci".

domenica 12 giugno 2011

JOHN PERKINS: Confessioni di un sicario dell'economia

(Pubblico questo articolo, anche senza aver controllato la fonte, perchè lo ritengo molto interessante.)
Il banchiere John Perkins rivela: sono stato arruolato dal governo degli Stati Uniti allo scopo di

risucchiare le ricchezze di paesi poveri. Che un banchiere intitoli le sue memorie "Confessioni di un

sicario dell'economia" è già clamoroso. Ma ciò che il banchiere John Perkins rivela nel suo libro,

"Confessions of an economic hit man" (1) è spaventoso: racconta di essere stato arruolato dal

governo Usa allo scopo di risucchiare a favore degli Stati Uniti le ricchezze di paesi poveri, e

ciò "attraverso manipolazioni economiche, tradimenti, frodi, attentati e guerre".

Le rivelazioni di Perkins gettano una luce del tutto nuova anche sulle motivazioni dell'invasione

dell'Irak. John Perkins dice di essere stato reclutato quando era ancora studente, negli anni '60, dalla

National Security Agency (NSA), l'entità più segreta degli Stati Uniti, e poi inserito dalla stessa

NSA in una ditta finanziaria privata. Lo scopo: "Per non coinvolgere il governo nel caso venissimo

colti sul fatto". Quale fatto? Abbastanza semplice.

Come capo economista della ditta privata Chas.T.Main di Boston con 2 mila impiegati, Perkins

decideva la concessione di prestiti ad altri paesi. Prestiti che dovevano essere "molto più grossi di

quel che quei paesi potessero mai ripianare: per esempio un miliardo di dollari a stati come

l'Indonesia e l'Ecuador". La condizione connessa con il prestito era che in massima parte venisse

usato per contratti con grandi imprese americane di costruzioni e infrastrutture, come la Halliburton

e la Bechtel (strutture petrolifere).

Queste ditte costruivano dunque reti elettriche, porti e strade nel paese indebitato; il denaro prestato

tornava dunque in Usa, e finiva nelle tasche delle classi privilegiate locali, che partecipavano

all'impresa. Al paese, e ai suoi poveri, restava lo schiacciante servizio del debito, il ripagamento

delle quote di capitale più gli interessi. L'Ecuador, dice Perkins, è oggi costretto a destinare oltre

metà del suo prodotto lordo - cioè di tutta la ricchezza che produce - per il servizio dei debiti

contratti con gli Usa. Ma questo è solo il primo passo. Gli Usa, indebitando quei paesi, vogliono

in realtà "renderli loro schiavi", dice Perkins. All'Ecuador, non più in grado di ripagare,

Washington chiede di cedere parti della foresta amazzonica ecuadoriana per farla sfruttare da

imprese americane. E' questa la logica imperiale.

Tra i massimi successi dei "sicari economici", Perkins rievoca l'accordo riservato fra gli Usa e la

monarchia saudita ai tempi della prima crisi petrolifera negli anni '70. Per gli Stati Uniti, era

necessario tramutare il rincaro del greggio da sciagura a opportunità. La famiglia dei Saud, del

resto, affogava nei petrodollari: le fu proposto di investirli in titoli Usa e in grandi opere. La Bechtel

(chi scrive fu in Arabia all'epoca e può testimoniarlo) ricoprì il reame desertico di nuove città e di

impianti di raffinazione per lo più inutili; la famiglia Saud accettò di mantenere il greggio entro

limiti di prezzo desiderabili per gli Usa, in cambio dell'assicurazione americana che Washington

avrebbe sostenuto il loro potere per sempre.

"E' questo il motivo primo della prima guerra all'Irak", dice Perkins, e dell'intreccio privilegiato di

affari e finanza tra i sauditi e i Bush. Secondo Perkins, gli Usa cercarono di ripetere l'accordo con

Saddam Hussein, "ma lui non c'è stato". Da qui la sua rovina. Perché, dice Perkins, "quando noi

sicari economici falliamo il bersaglio, entrano in gioco gli sciacalli. Sono gli uomini della Cia, che

cercano di fomentare un golpe; se nemmeno questo funziona, ricorrono all'assassinio. Ma nel caso

dell'Irak, gli sciacalli non sono riusciti ad arrivare a Saddam: lui aveva delle controfigure, la sua

guardia era troppo attenta. Perciò si è decisa la terza soluzione: la guerra".

Perkins ha conosciuto personalmente Omar Torrijos, il generale e dittatore di Panama degli anni

'70, morto in un incidente aereo nel '78. Torrijos fu ucciso, spiega Perkins, perché aveva stilato un

accordo coi giapponesi per la costruzione di un secondo canale di Panama, ed aveva ottenuto

dall'Onu nel 1973 una risoluzione che obbligava gli Usa a restituire alla sovranità panamense il

vecchio Canale. Le multinazionali americane "erano estremamente arrabbiate con Torrijos".

Per questo scopo, quando Reagan divenne presidente, gli furono fatti scegliere come ministri due

alti funzionari della Bechtel, Caspar Weinberger alla Difesa e George Schultz - il che rivela molto

sul ripugnante potere degli affari nella politica Usa - per costringere Torrijos con le minacce a

rompere i negoziati coi giapponesi (che stavano soffiando alla Bechtel l'affare del secolo) e di

rinnovare il trattato del Canale di Panama, riconsegnandolo agli americani. Torrijos rimase sulle sue

posizioni: furono mandati in azione gli "sciacalli".

L'aereo di Torrijos, dice Perkins, cadde per un magnetofono che era stato riempito di esplosivo. La

stessa fine di Enrico Mattei. Conclude Perkins: "il denaro che gli Usa adoperano per indebitare i

paesi poveri non è neppure denaro americano. Sono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario

  • a fornirlo". A fornire ai poveri la corda per impiccarsi.

___________________

Note

1. "Hit man" è il sicario prezzolato, il bastonatore assoldato dalla mafia e

dalle ditte americane per picchiare gli scioperanti.

FONTE:

http://www.corsera.it/modules.php?name=News&file=article&sid=20040409156456

http://newsgroup.economia.virgilio.it/newsgroup/thread.jspa?

lunedì 6 giugno 2011

Considerazioni post-elettorali: un appello a tutti coloro che si sentono "di Destra"

‘E indubbio che le ultime elezioni amministrative abbiano deluso anche chi tra noi de La Destra sperava che l’essere rientrati nella coalizione di centro destra avrebbe costituito la medicina buona per farci improvvisamente assurgere a più alti livelli di consenso. Tralasciamo ogni considerazione sui candidati sbagliati, o scelti solo all’ultimo minuto, sui Sindaci che hanno amministrato male e non potevano sperare in una rielezione, o sulle alleanze decise solo all’ultimo minuto, per fermarci al dato evidente: il centro destra esce, per la prima volta dal 2008, sconfitto da una elezione. Il nostro risultato non poteva non risentire dell’andamento generale, non perché fosse sbagliata la nostra posizione politica “di destra”, bensì per altri motivi. Non avendo ancora una solida struttura organizzativa, nel momento in cui il voto d’opinione dal centrodestra si sposta verso il centrosinistra è ovvio che non potevamo intercettare il voto d’opinione; così come l’essere rientrati nell’alleanza con Berlusconi nel momento in cui l’astro di Berlusconi sembra cominciare ad oscurarsi, non poteva certo favorirci.
Ciò non toglie che abbiamo fatto bene ad uscire da Alleanza Nazionale quando Fini stava per scioglierla nel PdL, così come abbiamo fatto bene, Come partito La Destra, a perseguire l’alleanza con il PdL.


Ma oggi, che il Berlusconismo sembra iniziare la sua fase calante, che fare? (storico interrogativo di leniniana memoria).

Potrebbe essere affascinante perseguire la cosiddetta “unità d’area”, ma, non solo l’esperienza mi racconta delle difficoltà sopratutto a livello periferico che si incontrano, a volte anche solo per interloquire con gli amici della Fiamma o con quelli di Forza Nuova (anche se esistono casi, pochi, in cui invece si realizzano ottime collaborazioni), ma ritengo riduttiva una simile prospettiva, in quanto ritengo che in Italia una forza di destra, nazionale, popolare e sociale può aspirare, come in altri Paesi europei (dalla Francia alla Finlandia, alla Svezia, all’Ungheria) a raggiungere il 20 % dei consensi.

Peraltro anche il rincorrere generali senza eserciti, ma con vaste e variegate clientele, come potrebbe essere il richiamo a questo o a quel personaggio ex-A.N., non ci porterebbe più lontano. Il nostro appello va invece rivolto a tutti coloro che, avendo votato PdL o Lega negli anni passati, si sentono ancora profondamente di destra, perché credono ancora nei valori tradizionali della destra, e cioè: Legalità, Ordine, senso dello Stato, come appartenenza ad una Comunità che, essendo Nazionale, è per questo, anche solidale;

dobbiamo riuscire a farci capire dai giovani che non trovano lavoro e pensano di non aver più futuro, dalle donne che, avendo avuto un figlio hanno dovuto abbandonare il posto di lavoro, dai due milioni di anziani che vivono con meno di 500 Euro al mese, da chi un lavoro non ce lo ha e da chi lo ha perso, dal piccolo imprenditore strozzato dalle banche e da un fisco sempre più ottuso, per trasmettere il nostro messaggio di solidarietà tra le generazioni, tra i territori, tra i ceti sociali, per chiedere:

-riduzione consistente delle imposte e semplificazione burocratica per chi ha redditi inferiori a 60.000 €. l’anno;

-tutela delle produzioni italiane, incentivi e meno tasse per chi assume e per chi trasforma contratti precari in contratti a tempo indeterminato, lotta a chi esporta capitali e delocalizza imprese;

- aumento degli assegni familiari per i minori a carico e incentivi economici alle famiglie che assistono in casa un disabile o un anziano non autosufficiente;

-riaffermare il prevalere della dimensione politica su quella economica, per indirizzare a fini di benessere sociale l’impresa, anche in vista di ulteriori necessarie liberalizzazioni, che eliminino tutti i monopoli, sia pubblici che privati;

-riforma presidenzialista dello Stato, per riaffermare il prevalere della legalità e della trasparenza e ridurre i costi della politica abolendo il bicameralismo e riducendo il numero dei parlamentari.

Prendiamo il posto in Italia degli “indignados” delle piazze spagnole. Abbiamo ancora un sogno da trasmettere alle nuove generazioni.
                                                                                      Aldo Rovito

Alessandria:La Destra esce dalla maggioranza e l'anno prossimo Claudio Prigione sarà candidato Sindaco

Si è tenuta stamattina nella Sala del Consiglio Comunale di Alessandria la preannunciata Conferenza stampa dei consiglieri de La Destra, Claudio Prigione e Aldo Rovito.


In apertura, il Capogruppo Claudio Prigione ha letto la dichiarazione con la quale i due Consiglieri hanno annunciato l’uscita dalla maggioranza.

Successivamente, il Consigliere Rovito, anche come Segretario Provinciale de La Destra, ha annunciato che l’anno prossimo La Destra presenterà come proprio candidato Sindaco il collega Claudio Prigione (imprenditore, mandrogno doc, è di Litta Parodi, era stato eletto quattro anni fa nella lista di Forza Italia, con una ottima dote di preferenze). La candidatura di Claudio Prgione sarà sostenuta anche da due liste civiche.

Dichiarazione dei Consiglieri Prigione e Rovito


Sono passati ormai quattro anni dalle elezioni comunali in cui il centro-destra è risultato vincitore. In questo periodo io e il collega Rovito siamo usciti dal partiti in cui eravamo stato eletti, Forza Italia e AN, confluiti poi nel PDL, perché non credevamo in quel progetto (e gli avvenimenti degli ultimi mesi pare ci stiano dando ragione) ed entrammo a far parte de La Destra di Storace. Crediamo sempre più di aver fatto una buona scelta che rispecchia i nostri sentimenti e idee politiche per la grande importanza che viene data in questo partito al sociale, alla meritocrazia, alla storia, agli italiani protagonisti in Patria.

Avevamo sottoscritto, sia io che Rovito, nel 2007 il programma di governo per i cinque anni.

Abbiamo atteso, lungamente, che venisse attuato, che venissero evitati gli sprechi, le consulenze inutili, gli incarichi a persone non meritevoli, tutto quello che la politica purtroppo fa a spese del cittadino contribuente, fatti che si evidenziarono da subito.

Abbiamo atteso che Alessandria diventasse finalmente sicura, ordinata, pulita, vivibile dagli anziani, attraente per i giovani, invece nonostante qualche piccolo sforzo è rimasta la solita città grigia forse con qualche fiore in più anche se maltenuto.

Non possiamo e non vogliamo essere assimilati ancora a tale gestione della città.

A livello nazionale confermiamo fermamente la nostra appartenenza al centro destra, ma dichiariamo oggi di volerci staccare dalla gestione locale, uscire dalla maggioranza.

Recentemente in occasione dell’approvazione del bilancio consuntivo pur esprimendo forti dubbi sulla gestione cittadina, abbiamo ancora una volta dato un voto politico che, in periodo elettorale, voleva dimostrare la nostra appartenenza alla coalizione nazionale di governo.

D’ora in poi voteremo in consiglio comunale secondo il nostro giudizio su ogni singolo argomento, proiettati verso la nostra futura visione di Alessandria: sicura, pulita, ordinata, luminosa, vivibilissima, con grande attenzione al commercio, risorsa importante della Città, all’artigianato ed a tutte le attività economiche locali.

Siamo consapevoli che le risorse economiche dei Comuni sono scarse, che lo saranno ancora di più nei prossimi anni, e che non si può ulteriormente elevare il livello delle imposte e delle tariffe: proprio per questo bisogna evitare gli sprechi, le consulenze inutili, il proliferare di aziende, e i piani fantasiosi.



Claudio Prigione Aldo Rovito

domenica 5 giugno 2011

Fondazione CrA al bivio, tra logiche localistiche e ambizioni nazionali

Nel regno di Palenzona si confrontano posizioni divergenti sul futuro dell’ente mandrogno: a partire dalla collocazione del principale asset bancario, promesso in dote ai milanesi. Ma il matrimonio non funziona.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria rappresenta un caso singolare all’interno del panorama delle istituzioni ex bancarie minori, solo per dimensione, della regione. Questa particolarità non va cercata nel rapporto che l’ente alessandrino intrattiene con il territorio di riferimento ma in alcune particolarità statutarie, nella presenza tra i vertici di nomi “eccellenti” anche per lo scenario nazionale e per la passata e attuale gestione dell’attivo patrimoniale più importante della Fondazione, rappresentato dall’omonima cassa di risparmio, che ha fatto storcere il naso a più d’un osservatore.

Il sostegno allo sviluppo economico e sociale del territorio da parte della Fondazione CR Alessandria non manca. Sotto l’attenta guida del Consiglio Generale e del presidente Grand’Ufficiale Pier Angelo Taverna, la Fondazione alessandrina spende, come riporta il bilancio 2009, l’ultimo disponibile, oltre sei milioni di euro in progetti destinati allo sviluppo dei settori rilevanti. Il 45 per cento del totale, pari a oltre 2.700.000 euro, è indirizzato a progetti nel settore dell’arte e dei beni culturali; il 17 per cento – poco oltre il milione di euro – allo sviluppo locale e all’edilizia popolare. Cifre di poco inferiori al milione di euro finanziano progetti per l’educazione e l’istruzione, la salute pubblica e la medicina. In analogia alla consorella astigiana, anche nel caso di Alessandria destano qualche perplessità i soli 190.000 euro devoluti alla ricerca scientifica e tecnologica: l’importante settore ottiene solo il tre per cento del monte finanziamenti.

Forse a causa della maggiore risonanza storica che la città di Alessandria ha avuto nei secoli passati e della centralità geografica all’interno dell’ormai scomparso triangolo industriale, la Fondazione non si limita a svolgere la propria attività in provincia ma, come recita lo Statuto, opera prevalentemente nel territorio della regione. Inoltre, nel caso di interventi ad alto contenuto sociale, purché riconducibili ai settori di cui sopra, può operare anche al di fuori del territorio nazionale, direttamente o in partnership con altri organismi nazionali o internazionali. L’esempio più attinente è rappresentato dalla partecipazione all’Associazione The World Political Forum, fondata dall’ultimo premier dell’Unione Sovietica Gorbaciov, il cui scopo è di favorire i contatti tra gli scienziati della politica.

Nel momento di scrivere le regole di assegnazione delle cariche societarie, lo Statuto dimentica la vocazione regionale o internazionale e conferma lo stretto legame con il territorio. Coloro che sono chiamati a dettare la strategia di gestione della Fondazione sono i quindici componenti del Consiglio Generale, dei quali due sono designati dal Prefetto di Alessandria, altri due dalla Provincia e tre dal Comune. Anche la curia alessandrina ha voce in capitolo: infatti il Vescovo di Alessandria invia un suo rappresentante in Consiglio. Gli otto consiglieri designati dagli enti e forze sociali locali hanno il potere di nominare altri sette consiglieri, cha devono essere scelti tra personalità di chiara e indiscussa fama e competenza. I componenti del Consiglio Generale durano in carica sei esercizi e nominano i componenti del Consiglio di amministrazione della Fondazione, che riveste grande importanza in quanto ha le chiavi della gestione ordinaria dell’istituto. Oltre alla presenza di Taverna, presidente anche del Consiglio di amministrazione, spicca il nome di Fabrizio Palenzona, che dopo essere stato sindaco di Tortona e presidente della provincia di Alessandria, si è lanciato nel mondo dell’alta finanza, ove attualmente riveste le cariche di vicepresidente Unicredit, presidente di Gemina, dell’Associazione concessionarie autostradali, Aeroporti di Roma e, dulcis in fundo, consigliere di amministrazione di Mediobanca.

Come anticipato, risulta particolarmente contrastato il rapporto tra la Fondazione e la banca da cui fu scorporata nel 1991 per effetto della legge Amato, la Cassa di risparmio di Alessandria, che ne rappresenta, forse ancora per poco tempo, l’asset più importante. A fine 1994, Alessandria precorre i tempi e decide di dare il via alle alleanze bancarie tra Piemonte e Lombardia, che quasi mai hanno portato buone notizie per il territorio regionale. La Fondazione CR Alessandria conferisce il cinquantuno per cento delle azioni della banca in Carinord, holding creata insieme all’ex Cassa di risparmio delle provincie lombarde (Cariplo), che detiene la maggioranza azionaria della nuova società, alla Fondazione CR Spezia e alla Fondazione CR Carrara, che conferiscono le loro casse di risparmio. La finanziaria avrebbe dovuto avere il ruolo, nella salvaguardia dell’identità di ogni singola azienda, di programmare e coordinare le attività svolte dalle partecipate, al fine di promuoverne la competitività e i risultati economici e finanziari. Le Fondazioni minori rispetto alla Cariplo, ritenevano che la via dell’aggregazione fosse obbligata, in analogia al comportamento di tante altre banche a quei tempi, ma non hanno mai creduto fino in fondo all’opportunità: in quest’ottica trova la sua motivazione il venti per cento della Cassa di Alessandria che la Fondazione mantiene sui libri contabili. Non tutte le componenti della Fondazione erano d’accordo con l’operazione: nel 1994 il professore Maurizio Cavallari, consigliere della Fondazione, l’assessore comunale Marco Melchiorre e alcuni consiglieri comunali di Alessandria (Andrea Ferrari, Pietro Caramello, Aldo Rovito, Carlo Vergagni e Gabrio Secco) presentarono un ricorso al Ministro del Tesoro in carica, Lamberto Dini, per fare invalidare la delibera di confluenza. In particolare, Cavallari affermò che al momento della delibera del Consiglio, allora presieduto da Gianfranco Pittatore, che diede il via libera al progetto “Carinord”, lui era assente e quindi non ha potuto esprimere il suo voto in qualità di “consigliere incaricato della tutela del patrimonio”. La delibera di adesione a Carinord fu avallata dal ministero e il ricorso respinto in quanto “non è presente il rischio di dispersione del patrimonio”. Il ricorso non fece piacere a Pittatore e agli altri consiglieri che chiesero un risarcimento a Cavallari pari a un miliardo e mezzo di vecchie lire. In effetti un minimo effetto di dispersione del patrimonio si ebbe a causa dell’intervento dell’antitrust e di Banca d’Italia che obbligarono Carinord allo stop quinquennale di nuovi insediamenti di sportelli. Cavallari non era il solo a temere gli effetti dell’operazione Carinord: più o meno nel medesimo periodo temporale anche il presidente della provincia di Massa Carrara Franco Gussoni, quello della locale Camera di Commercio, Giuseppe Tramonti e tre consiglieri della Fondazione Cassa di Carrara, presentarono richiesta di annullamento della delibera di confluenza, ottenendo il medesimo rifiuto ministeriale.

Il progetto non portò i frutti economici e patrimoniali attesi e nel 2003, Banca Intesa, che aveva incorporato Cariplo, vende con molto piacere l’ottanta per cento di Cassa di risparmio di Alessandria alla Banca Popolare di Milano. La Fondazione mandrogna, oltre a mantenere il venti per cento della Cassa, ottiene il 7,3 per cento del capitale della banca milanese, una della maggiori in Italia. Trascorre un anno e la Fondazione, forse per esigenze di cassa, diminuisce la quota detenuta in BPM al due per cento. Manovra miope, anche se con alta probabilità necessaria, perché diminuisce le possibilità di far sentire la propria voce in Consiglio di amministrazione. In conseguenza, dopo aver investito cifre cospicue per mettere a posto la Cassa di Risparmio di Alessandria, gravata da eccessivi rischi e crediti di dubbia esigibilità, la BPM, anch’essa in acque poco tranquille, decide di integrare al suo interno le banche minori per conseguire risparmi di costi. Il piano industriale della banca milanese prevede l’integrazione in due tempi di Cassa di Alessandria entro il 2011. La Fondazione ha deciso di ostacolare i piani di BPM perché non vuole che la sua quota sia diluita in conseguenza dell’incorporazione, ma l’unico risultato conseguito ha visto le dimissioni del consigliere in BPM in quota Fondazione, Francesco Bianchi, per dissidi tra l’operato di quest’ultimo e il mandato che gli aveva affidato l’istituto alessandrino.

La Fondazione CR Alessandria rivolse i suoi interessi oltre provincia, a differenza di altre consorelle quale la Fondazione CR Asti, e ha usato come carta da visita il suo gioiello di famiglia. La via intrapresa non ha portato i frutti sperati per due motivi: il peso specifico che la Cariplo, una della più importanti banche nazionali, rappresentava, e la scarsa fiducia che alcune componenti locali hanno sempre riposto nell’operazione. La conclusione della vicenda, con ampia probabilità, priverà il territorio alessandrino e la regione di un marchio conosciuto e necessario al territorio.
(Da Lo Spiffero del 25 Maggio 2011 - http://www.lospiffero.com/)

sabato 4 giugno 2011

Fassino a Consorte: aspetta a denunciare

Fassino a Consorte: aspetta a denunciare
L’ex ad: «In realtà abbiamo già in mano il 51 per cento»
Gianluigi Nuzzi da Milano
Per portare Unipol e le coop rosse al comando di Bnl, nei momenti decisivi della scalata Gianni Consorte potè contare su «coperture politiche», salde alleanze con i vertici dei Ds, assai interessati ai destini della banca e quindi partecipi. Lo si capisce dalla telefonata intercettata tra Consorte e Piero Fassino, segretario dei Ds, anticipata sabato scorso da Il Giornale e di cui oggi siamo in grado di fornire ulteriori elementi. Ma lo si evince anche dal brogliaccio delle intercettazioni, come quella del 18 luglio con il vice direttore de L’Unità Rinaldo Gianola. Ecco il sunto dal brogliaccio: «Gianni dice che lui ha la maggioranza (di Bnl, ndr), dice di non aver fatto una mossa senza preavvertire la Consob. Rinaldo chiede se Abete ha fatto ”delle porcate“ a favore di Della Valle e degli altri, Gianni dice che si troveranno dei grandi scheletri. Gianni dice che intanto lui inizia a far partire le denunce verso chi l’ha calunniato. Rinaldo chiede se sul fronte politico, Fassino e gli altri, lui sia coperto. Gianni dice sì». La liaison con gli esponenti dei Ds, le coperture emergono in tutta la loro consistenza anche dagli appuntamenti o dalle telefonate intercettate dell’allora presidente di Unipol con esponenti di primo piano della Quercia: D’Alema, Fassino, il tesoriere Sposetti. In particolare, i colloqui registrati sul telefonino di Consorte con Fassino sono cinque per oltre venti minuti complessivi di dialogo. La telefonata della svolta dovrebbe essere quella del 18 luglio. In mattinata, alle 12, Unipol comunica al mercato che, sciolto il cosiddetto contropatto degli immobiliaristi, si prepara a lanciare un’Opa obbligatoria su Bnl in contanti a 2,7 euro. L’Ansa lancia la notizia alle 12.21. Dopo un’ora Consorte si dedica ai suoi rapporti politici. Prima si sente tre volte con il senatore dei Ds Latorre, già assistente di Massimo D’Alema, poi chiama Fassino, che tra l’altro aveva sentito proprio la sera prima alle 23.30. Entrambi sembrano soddisfatti con un Fassino insolitamente diretto: «E allora siamo padroni di una banca?», si lascia scappare e Consorte: «È chiusa, sì, è fatta». Il segretario dei Ds mostra un attimo d’esitazione. Capisce di essersi mostrato troppo euforico al telefono e allora preferisce correggersi: «Siete voi i padroni della banca, io non c’entro niente». Consorte: «Sì, sì è fatta, è stata una vicenda, credimi, davvero durissima... però sai... (parola incomprensibile, ndr)». E Fassino che conviene: «Già, ormai è proprio fatta».
FASSINO, BNL E LE COOP
Il segretario dei Ds vuol però capire bene come verrà gestito il passaggio di quote dal contropatto agli alleati di Unipol. E se c’è certezza del controllo della banca. A Consorte chiede il quadro della situazione: «Alla fine emerge - spiega Consorte - che abbiamo diciamo quattro coop...». Fassino: «E quanto prendono?» Consorte: «Quattro cooperative il 4 per cento». Fassino ancora non conosce i dettagli delle quote che verranno cedute e chiede se il 4 per cento sia per ciascuna cooperativa. Consorte: «No, no, no. L’uno per cento l’una». E Fassino ripete: «Uno per cento per quattro». Consorte: «Proprio così». Fassino: «Queste cooperative che poi sono Adriatica, Liguria, Piemonte e Modena ». Consorte: «Poi ci sono quattro istituti di credito italiani che sono al 12%. Infine banche estere come Nomura, Credit Suisse e Deutsche Bank che hanno l’un per cento, l’altra circa il 14,5». E Fassino attento che ripete: «14 e mezzo». Consorte: «Sì, poi c’è anche Gnutti e Hopa... il 4,99%. Marcellino Gavio e Pascotto... all’1 e mezzo». Fassino sembra come prendere nota: «Insieme?». Consorte: «Certo, e poi Unipol chiude al 15%».
«IMMOBILIARISTI FUORI»
C’è da festeggiare. Consorte indicati i prossimi soci, elenca le conquiste portate a casa. Primo: «Gli immobiliaristi sono totalmente fuori». Ma Fassino interrompe, pensa al futuro: «Tu ora che operazione fai dopo questo?». E Consorte annuncia il lancio dell’Opa, all’epoca previsto per settembre. Fassino sorpreso: «Hai già lanciato l’Opa obbligatoria?». Consorte: «Già, proprio al medesimo prezzo delle cessioni delle azioni degli immobiliaristi». Fassino: «2,7 euro?». Consorte: «Via ogni speculazione, sono trattati tutti uguali. Per legge potevamo fare a 2,55». Fassino: «Bbva cosa offre?» Consorte. «2,52 in azioni, noi offriamo in instant cash». Fassino: «Cazzo». Poi Consorte svela il piano: «In realtà noi abbiamo già in mano il 51%», ovvero la maggioranza ancor prima del lancio dell’Opa. Fassino vuol capire meglio e chiede: «Noi abbiamo il 15 più 4 delle Coop fa il 19 a noi, e come arrivi al 51 tu?». Consorte lo tranquillizza: «Con le banche più...». E il segretario: «Ah sì, questa somma qui, fa il 51 certo». Consorte si mostra ancor più chiaro: «Quelle aziende ci hanno rilasciato un diritto a comprare i loro titoli dietro nostra semplice richiesta se dall’Opa non dovessero arrivare azioni». Fassino: «Ho capito». Consorte: «Quindi noi come Unipol prendiamo comunque il 51». Fassino. «Ho capito». Consorte: «Se invece dall’Opa ci arrivano le azioni, quelli se le tengono». Fassino: «Se tu arrivi al 51 in altro modo loro si tengono quello». Unipol ha già conquistato Bnl: basta lanciare l’Opa con l’ok di Bankitalia. Un bel colpo dell’ingegnere, un’operazione «che nessuno aveva né immaginato né pensato».
I COMPAGNI PARVENU
Ma bloccare la strada agli spagnoli può esser letto come un’azione a difesa degli interessi italiani. Nessun problema: «Abbiamo zittito i parvenu - gongola Consorte - quelli che sostenevano che era un’azione nazionalistica. Eh... ci sono tre banche internazionali: Nomura, quarta nel mondo, Suisse è tra le prime in Europa». Anche qui Fassino guarda più i profili concreti e chiede: «Possibili ricorsi in sede giudiziaria?» temendo magari la via crucis dei lodigiani nella scalata Antonveneta. Consorte ancora tranquillizza: «Noi ad oggi non ne vediamo neanche uno...». Il segretario Ds non si convince, teme qualche ricorso: «Cioè il fatto - riflette - che contestualmente siano avvenute tutte queste cessioni...». Ma Consorte si mostra strasicuro: «Questo è il concerto fra gli alleati con le quote già in mano. Poi l’Opa senza penalizzare nessuno». E Fassino «Bene, bene».
L’ORA DELLA RIVINCITA
Con il 51% già in tasca Consorte vuole qualche rivincita e medita di «denunciare uno per uno» tutti quelli che l’hanno osteggiato con accuse per lui infondate. Ma Fassino pragmatico gli dà consigli, gli indica come muoversi. Lo frena pensando agli obiettivi più importanti da raggiungere: «Prima di denunciare - lo esorta - aspetta. Prima portiamo a casa tutto». Poi con Bnl sotto l’ombrello Unipol se ne riparlerà. Anche perché siamo solo agli inizi. Per Fassino gli imprenditori che sostengono il Bbva «ora si scateneranno ancora di più. Ieri hai visto il... No, ieri non l’hai visto, hai lavorato tutto il giorno. Ieri il Sole ha fatto un’intera pagina contro di me». Per Consorte al foglio della Confindustria guardano la scalata di Unipol in chiave solamente politica: «Questi dicono: cazzo, adesso i Ds, oltre ad avere il mondo delle coop, Unipol, oltre ad avere il Monte dei Paschi, che non è così, hanno anche la banca Bnl. Il ragionamento demenziale che fanno è questo qui».
«COMPORTATEVI BENE»
A Fassino pare importare poco. Insiste invece perché Consorte rimanga concentrato sugli obiettivi. Bisogna portare a casa tutto. E lo stimola: «Va bene e intanto noi lavoriamo, ma perché poi demenziale?». Consorte: «No, noi sosterremo che è demenziale». Fassino ritiene più importante indicare la propria linea politica, e suggerisce come «comunicare» la svolta: «Voi avete fatto un’operazione di mercato, quello che ho sempre sostenuto io. Industriale». Consorte recepisce al volo: «Industriale e di mercato». Fassino: «Esatto, ora dovete comportarvi bene. Preoccupatevi bene di come comunicate in positivo il piano industriale». Il segretario esita tra il «noi» e il «voi»: «Perché il problema adesso è dimostrare che noi abbiamo... che voi avete un piano industriale». Consorte: «No, ma noi l’abbiamo veramente!». E Fassino laconico: «Eh lo so, bisogna farlo».
SALVARE L’IMMAGINE
Serve concordare un piano di comunicazione su questa operazione. Da diffondere come «di mercato e industriale». Allontanando ogni illazione su interessi politici. Fassino: «Fino adesso stanno utilizzando l’idea che era soltanto un problema di accaparrarsi la banca e poi però non sanno cosa farne, non è così». Consorte invece, suggerisce una linea più aggressiva: «Noi invece sosterremo questa tesi: che loro la banca la stavano svendendo». Il segretario è d’accordo. «E anche - incalza l’allora presidente di Unipol - che l’hanno gestita coi piedi deve finire. Lo dirò fra quattro o cinque mesi quando avrò visto dentro. Io adesso dico che era un’operazione che stava svendendo, visti i valori proposti dalla Bbva, la banca agli spagnoli, svuotandola di contenuti perché come tutte le banche, avrebbe portato via tutte le attività qualificate a Madrid e avrebbero ridotto la Bnl a una rete. Con noi invece la banca rimarrà a Roma, gli portiamo un milione di clienti, poi facciamo diventare Unipol una delle prime quattro banche italiane». Fassino non ha nulla da obiettare: «Bene». Il manager: «E dopo ci confrontiamo». Fassino di nuovo: «Bene». E Consorte è rincuorato: «Bene, ero sicuro che si poteva parlare. Grazie». Fassino: «Bene, vediamoci presto ti chiamo per fissare in settimana».

venerdì 3 giugno 2011

I giovani e la politica

Ho passato quasi tutta la giornata di sabato scorso ad assistere al convegno “Confronto, Libertà, Partecipazione 2011”, organizzato dai movimenti giovanili di PdL, PD, UDC, IDV e Lega Nord, con il contributo di Regione, Provincia, Comuni di Alessandria, Acqui Terme, Casale, Novi,Ovada, Tortona, Valenza.

Al di la dello (scarso) numero dei partecipanti (qualche decina?), quello che mi ha colpito in negativo è stata la qualità degli interventi. Per carità, tutti bravi ragazzi, corretti, educati, alcuni anche ben preparati sull’argomento trattato, ma........

Il dibattito è stato molto educato, le diverse posizioni sono state esposte in modo corretto, nessuno ha urlato o interrotto per sopraffare chi esponeva una >tesi diversa o contraria. Anche gli applausi sono stati equamente attribuiti a tutti, salvo che al pomeriggio, ove nella tavola rotonda con i “grandi” si è vista la presenza delle “tifoserie”, ma…..

Ma è che da giovani di venti – ventiquattro anni mi sarei aspettato qualcosa >di molto, molto diverso, da una critica o da una difesa della riforma Gelmini, o da una richiesta di maggiori interventi degli Enti Locali per le sedi universitarie alessandrine, cioè dalla ripetizione di tesi e argomenti già svolti nei partiti dai “grandi”.

Non voglio ripensare alle motivazioni per le quali un giovane della mia >generazione è entrato in politica (accennerò, per quel che mi riguarda a un solo episodio: 1956: invasione dell’Ungheria, manifestazioni di piazza, cariche della "celere"), ma, con quello che succede oggi in Italia, ascoltare dei bravi ragazzi che discutono molto correttamente su argomenti anche importanti di politica scolastica o di equilibrio fra i poteri o di politica estera, in modo così educato da costituire certo un buon esempio per gli adulti che si azzannano invece nei dibattiti televisivi, non credo che possa essere trainante per altri giovani.

Oggi in Italia, dove tra i giovani di età compresa tra i 16 e i 29 anni solo uno su quattro trova un lavoro, dove 800.000 donne in dieci anni avendo avuto un figlio, si son viste costrette a lasciare il lavoro, dove 2 Milioni di anziani son costretti a vivere con meno di 500 Euro al mese,dove la corruzione dilaga ad ogni livello, dove le varie mafie conquistano spazi anche nel Nord opulento e operoso, i giovani dovrebbero indignarsi, scendere in piazza, come è accaduto in Tunisia, in Egitto, in Siria ed ora anche in Spagna, paesi nei >quali i giovani si son messi alla testa di una protesta pacifica contro la corruzione, la emarginazione economica e sociale. E in Italia? Che alla guida della protesta debbano mettercisi le “pantere grigie” visto che i giovani invece di contrapporsi ai loro padri, sembrano le loro fotocopie sbiadite ?

C’E UN MOSTRO IN VIA PLANA. IL SINDACO NE ORDINI L’ABBATTIMENTO

Ecco il testo dell'interrogazione con la quale, come Consigliere Comunale de LA Destra ho chiesto la immediata rimozione del "mostruoso" dehors installato in via Plana.
INTERROGAZIONE
Oggetto: Mostruoso dehors in via Plana
Il sottoscritto Consigliere Comunale,
premesso
-che da qualche settimana è stato installato in via Plana un “dehors”, il quale, oltre a violare apparentemente tutte le norma del regolamento comunale >in materia approvato con delibera consiliare n. 44/95/269 del 20.05.2009, soprattutto in tema di composizione e copertura del dehors, divieto di ostacolo alla libera circolazione dei pedoni sul marciapiede, obbligo di distanza dai balconi, rispetto delle norme sull’abbattimento delle barriere architettoniche, risulta elemento di terrificante bruttezza, completamente avulso dall’ambiente circostante;
INTERROGA
Il Signor Sindaco e/o il competente Assessore, per conoscere:
- Il nominativo del Funzionario Responsabile dell’Ufficio per la Diffusione della Bruttezza che ha autorizzato l’installazione del manufatto ed il tempo >entro il quale intenda ordinarne la immediata rimozione.
Alessandria 26 Maggio 2011
Il Consigliere Comunale Aldo Rovito

UN'OCCASIONE PERDUTA

Martedì scorso, si sono svolte le prove di quello che nei prossimi mesi potrebbe essere il leit motif della vita politica cittadina: l’intensificarsi nella nostra Città del tentativo di trasformare la dialettica politica anche vivace nel trionfo della più vieta demagogia.
Era stata convocata nella sala del consiglio comunale la Commissione Consiliare “Territorio” per esaminare la relazione predisposta da un tecnico (geologo) incaricato dal Comune, sulla situazione idrogeologica delle aree collinari della nostra Città.
Era stata convocata appositamente per le ore 21 (un orario insolito) proprio per consentire al Comitato di Valle San Bartolomeo e ai cittadini interessati di assistere alla seduta e di ascoltare direttamente dai tecnici i risultati della ricerca.
Purtroppo, i cittadini, arrivati in Piazza Libertà, sono stati indotti ad ascoltare le arringhe dell’emulo di de Magistris, il nuovo Masaniello in salsa “mandrogna”, il consigliere Bellotti e a disertare i lavori della Commissione.
Non possiamo non esprimere il nostro disappunto: è stata persa una occasione importante perché il Comitato e gli abitanti delle zone collinari venissero a conoscenza di un importante strumento di cui l’Amministrazione si è dotata per salvaguardare il territorio collinare dai rischi del dissesto idrogeologico e potessero magari rendersi conto della volontà dell’amministrazione di intervenire.
Peccato! Ci faremo carico noi de La Destra di portare a conoscenza dei cittadini i risultati della relazione tecnica, di ascoltare le loro proposte e di portarle in Consiglio.
Claudio Prigione
Aldo Rovito