domenica 14 agosto 2011

Globalismo e Mercati, Hybris e Némesis - di: Alberto B. Mariantoni


Non è escluso che alcuni lettori, già prima di iniziare a percorrere il testo di questa mia riflessione, possano eccepirmi: ma che c’entrano delle nozioni culturali dell’antica Grecia (come ὕϐρις/húbris/hybris = dismisura, eccesso, oltraggio; e Νέμεσις/ Némesis = la collera o la vendetta divina), con le umilianti e mortificanti fregature che il cosiddetto “Mercato globale” continua quotidianamente a dare al “Popolo-bue”?

Capisco l’eventuale sorpresa, ma se una tale correlazione potrebbe apparire ai più come una specie di forzatura letteraria, coloro che avranno il tempo e la pazienza di seguire il mio ragionamento, potranno facilmente accorgersi che quelle nozioni c’entrano. Altroché se c’entrano!

Prima, però, di poterne scoprire l’eventuale concatenazione, cerchiamo di fare il punto della situazione, incominciando con il focalizzare e decifrare il primo soggetto di questa analisi: il “Liberismo”.

Questa “scuola di pensiero” (prettamente ideologica, e poco economica, mi permetto di sottolineare), tende a caratterizzarsi, in generale, per la sua fedeltà e sottomissione a tre dogmi fondamentali:

1. “Nel campo economico esiste un ordine naturale che tende ad organizzarsi spontaneamente, purché gli individui siano lasciati liberi di agire, ispirandosi ai loro propri interessi.

2. Quest’ordine naturale, è il migliore, il più capace di assicurare la prosperità delle nazioni; è superiore a qualsiasi altro ordinamento artificiale che si potrebbe ottenere attraverso l’impiego di leggi umane.

3. Non esiste nessun antagonismo, ma armonia tra i diversi interessi individuali, e l’interesse generale concorda ugualmente con gli interessi individuali. Questa armonia, forma l’essenza stessa dell’ordine naturale” (Pierre Reboud, “Précis d’Economie Politique”, Tome premier, Dalloz, Paris, 1939, pag. 52).

Ora, senza dover superfluamente dare risalto al fatto che qualsiasi dogma è semplicemente la più grande offesa che si possa perpetrare nei confronti dell’intelligenza umana, vediamo cosa diceva, a proposito del “Liberismo”, il Dizionario di filosofia e scienze umane di Emilio Morselli, edito da Signorelli, a Milano, nel 1988: “Liberismo (o Liberalismo Economico): teoria secondo cui il modo migliore per promuovere lo sviluppo economico è quello di lasciare l’iniziativa privata in piena libertà d’azione, escludendo ogni ingerenza artificiale da parte dello Stato. Ipotesi di fondo del liberismo è l’esistenza di un ordine naturale in campo economico analogo a quello del mondo fisico; ne derivano due postulati: a) la concorrenza perfetta premia i migliori ed elimina i cattivi operatori; b) il meccanismo naturale dei prezzi che, in regime di libera concorrenza, trova il proprio freno nella legge della domanda e dell’offerta. Queste tesi del liberismo classico, elaborato dai grandi economisti settecenteschi (A. Smith, D. Ricardo, T. Malthus), non trovano più riscontro nella realtà economica moderna, sia nelle premesse che nelle conseguenze”.

Appena 23 anni fa, quindi, il “Liberismo” era ufficialmente morto o considerato un qualcosa che, in tutti i casi, non trovava “più riscontro nella realtà economica moderna, sia nelle premesse che nelle conseguenze”.

Dagli anni ’90 del secolo scorso ad oggi, invece, si continua a cercare di convincere l’uomo della strada che il medesimo “Liberismo” sarebbe il nec plus ultra del progresso e dello sviluppo delle nostre società.

Questo, nonostante che i suoi suddetti dogmi – ciclicamente attivati e, ogni volta, testardamente ed illogicamente messi in pratica (in particolare, tra il 1852 ed il 1890; tra il 1911 ed il 1915 e tra il 1920 ed il 1930, con i “risultati” che conosciamo…), irragionevolmente riproposti (negli anni 1950/1960, dalla “scuola di Chicago”: Milton Friedmann, Feldstein, Moore, etc.) e, dal 1992 (cioè, dopo la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell’ex Unione sovietica), politicamente propagandati e fideisticamente diffusi come indiscutibili ed incontestabili – abbiano, nel loro ricorrente confronto con la realtà, invariabilmente “toppato” su tutta la linea e si siano costantemente ed immutabilmente rivelati per quello che in realtà sono e sono sempre stati: una semplice mega-truffa planetaria, ai danni dell’uomo della strada, da parte dei soliti noti!

Vedremo, tra poco, il perché quei dogmi sono una semplice frode.

Cerchiamo, ora, di individuare ed approfondire le principali peculiarità del secondo attore di questa analisi: lo “Stato” o gli “Stati”.

Thomas Hobbes, nel suo Leviatano (1651), ci dice che “lo Stato rappresenta l'istanza unitaria e sovrana di neutralizzazione dei conflitti sociali e religiosi attraverso l'esercizio di una summa potestas, espressa attraverso la forma astratta e universale della legge che si legittima in base al mandato di autorizzazione degli individui, in cui si realizza il meccanismo della rappresentanza politica”.

In che consisterebbe, in particolare, quella sua summa potestas?

Consiste soprattutto nel fatto che qualsiasi Stato (dal lat. statum = ‘condizione’, ‘posizione’; riepilogativo di: status civitas = ‘Stato della città’, o status rei publicae = ‘Stato della cosa pubblica’) è, per antonomasia, simultaneamente sovrano, indipendente e spersonalizzato.

E’ sovrano, in quanto è superiore (dal lat. sŭpĕrans, antis = ‘predominante’; da cui, il tardo lat. superanus, a, um = ‘soprano’ o ‘che sta sopra’, ed il francese souverain = sovrano) ad ogni altro soggetto politico, economico, sociale, giuridico (individuale o collettivo) che esiste ed agisce all’interno dei suoi confini politici. E’ indipendente (in = negazione di, dipendente: quindi, che ‘non è soggetto a vincolo di nessun genere, da parte di nessuno’), in quanto, nei rapporti con altri Stati, non accetta – se non in modo concordato e consensuale (dopo essere stato, come minimo, preventivamente autorizzato da un referendum popolare) e su un piano di ordinaria reciprocità ed equità – nessuna rinuncia alle sue prerogative. E’ spersonalizzato, in quanto – qualunque sia o possa essere la rappresentanza politica che il Popolo-Sovrano ha occasionalmente scelto per far gestire o amministrare la cosa pubblica – è sempre il Governo pro tempore della Nazione che ha l’obbligo di conformarsi ai fondamenti dello Stato (che sono stati preventivamente espressi dalla volontà popolare, condensati nei termini della sua Costituzione e continuano ad essere difesi e garantiti dalle sue leggi), e non il contrario.

Intendiamoci, il Governo di una Nazione può pure decidere di cambiare i fondamenti dello Stato a cui appartiene, ma prima deve comunque chiederne l’autorizzazione e l’avallo da parte del Popolo-Sovrano.

A questo punto, per permettere a chiunque di potersi davvero rendere conto che anche la teoria dello Stato – a causa dell’accettazione incondizionata dei dogmi del “Liberismo” da parte della forze politiche (al Governo ed all’Opposizione) delle nostre Nazioni – è diventata una semplice truffa ai danni del cittadino, è sufficiente porsi queste semplici domande:

1. E’ mai possibile, ad esempio, che l’insieme delle forze politiche di una Nazione – che ufficialmente dovrebbero operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato che esse stesse rappresentano ed amministrano – per cercare di forzare le realtà oggettive dei nostri Paesi e farle coincidere con i dogmi dell’ideologia (il “Liberismo”) nella quale credono o si identificano, si sforzino principalmente di sottomettere i nostri Paesi alle cosiddette “Leggi del Mercato” e, favorendo la speculazione finanziaria internazionale, privino arbitrariamente da un lato i cittadini e lo Stato della loro inalienabile sovranità e, dall’altro, facciano addirittura pagare, a questi ultimi, i ripetuti e costanti fallimenti della loro astratta ed inattuabile teoria ideologica?

2. Se uno Stato, per poter ordinariamente esistere ed operare, non solo accetta – sulla base della medesima ideologia “liberista” – di rinunciare a “battere moneta” (che è una delle due prerogative del Principe, assieme al ‘monopolio dell’utilizzo della Forza armata’), ma è nientemeno costretto a chiedere in prestito dei capitali sul mercato libero, c’è ancora da domandarsi le ragioni per cui il nostro debito pubblico (assieme agli interessi che debbono essere pagati sul medesimo debito), è sempre più esponenziale, fino a diventare strutturalmente inestinguibile?

3. E’ accettbile che uno Stato, su sollecitazione di un qualunque Governo in carica, prenda l’iniziativa di scatenare una vera e propria caccia all’evasione fiscale – fino al parossismo di appostare degli agenti della Guardia di Finanza fuori dai Bar dove andiamo a bere un caffè o mangiare un tramezzino, per controllare de visu se abbiamo o no il relativo scontrino della nostra consumazione, ed allo stesso tempo – non conosca (o faccia finta di non conoscere) il nome ed il cognome (o la personalità giuridica o morale) degli speculatori internazionali che, come se niente fosse, spostano, ogni giorno, migliaia di miliardi di dollari o di euro, da una borsa all’altra del Pianeta, facendo fallire (se il caso si presenta) intere economie nazionali, senza che questi ultimi possano essere in qualche modo identificati, recensiti e tassati, come qualunque altro cittadino del mondo, sia sui loro capitali che sui loro ingenti profitti?

Se tutto ciò è ammissibile e tollerabile, viene spontaneo domandarsi: a cosa servono gli Stati se non a continuare indebitamente a sgassare i cittadini per conto terzi e raschiare il fondo del barile dei nostri introiti e dei nostri risparmi, per permettere a chi è già ricco di diventare più ricco, con l’appoggio incondizionato ed il sostegno pratico della Forza pubblica che dovrebbe essere, invece, il principale baluardo della nostra tutela?

Ed aggiungo: qualora tutto ciò sia davvero ineluttabile (come spesso cercano di convincerci…), allora, aboliamo gli Stati. Mettiamoci tranquillamente l’anima in pace ed accettiamo, di buon grado, di farci direttamente governare dalle strutture della speculazione internazionale. Così, almeno, avremo come minimo economizzato l’insieme dei costi astronomici della politica che, come abbiamo già visto, serve esclusivamente a farci meglio depredare dagli innominabili ed insaziabili manovratori della finanza cosmopolita!

Prendiamo, per concludere il nostro giro d’orizzonte, il terzo ed ultimo attore di questa medesima disamina: “l’Uomo”.

Che cos’è l’Essere umano? E’ quell’individuo (dal lat. individuus, a, um: quell’aggettivo, cioè, che non potrà mai essere o diventare soggetto di se stesso!) che serve esclusivamente al “Liberismo”, per avere al suo cospetto quella massa indefinita di produttori e di consumatori non organizzati e, quindi, imporre unilateralmente le sue regole del gioco all’insieme dei prestatori d’opera ed il suo monopolio (settore per settore) nel campo dei prodotti e dei prezzi? Oppure, è l’anathrôn-ha-opôpé dei Greci: quell’essere animato, cioè, diverso dagli altri animali, che ragiona ed è sensibile?

In quest’ultimo caso, come è falice desumerlo, sarebbe praticamente impossibile continuare a considerarlo uno dei tre fattori della produzione e seguitare altresì a compararlo agli altri due che sono – come tutti sanno – la “tecnologia” ed il “capitale”.

Chi ha mai visto, infatti, fino ad oggi, piangere o ridere, esaltarsi o disperarsi, amare o odiare, provare simpatia o antipatia, affinità o diffidenza, affetto o repulsione, gioia o dolore, un tornio o un cassetto pieno di soldi?

Eppure, i bricconi di cui sopra – vista l’attiva ed interessata complicità della Casta politica (di destra, di sinistra e di centro) del nostro Paese e dei Media (i valvassini dei precedenti) che ne amplificano studiatamente le “gesta” e la “parola” – sembrano comunque essere riusciti a far credere ai cittadini delle nostre società, perfino una tale insostenibile bizzarria!

Convincendo l’uomo della strada che ciò che custodiva o teneva in tasca era più importante di lui, i principali sostenitori dell’ideologia “Liberista” hanno semplicemente permesso che fosse apertamente e legalmente perpretato nei suoi confronti, il più grande e ripugnante dei crimini che la Storia abbia fino ad oggi conosciuto: quello, in particolare, di trasformare psicologicamente il medesimo essere umano – originariamente soggetto e finalità della Storia, della Politica e dell’Economia – in volontario ed inconsapevole oggetto di un’astratta e nefasta ideologia che, ponendo il danaro al centro della società, ha ridotto l’Uomo ad una semplice cosa o bene mobile. E, come tale, lo ha reso suscettibile di essere assunto a discrezione ed al minor prezzo possibile, nonché licenziato in tronco, in qualsiasi momento, senza nessun preavviso, né valido motivo, ed affidato unicamente al buon volere delle “Leggi della domanda e dell’offerta”. Il tutto, ovviamente, per permettere ai principali promotori ed organizzatori del cosiddetto “Mercato globale” di ottenere, anche nel contesto del cosiddetto “Mercato del lavoro” (come se l’Uomo potesse essere comparato ad un chilo di patate o di zucchine…) – con l’appoggio diretto o indiretto dei Sindacati embedded ed il connivente e prezzolato avallo dei responsabili dei nostri Governi e dei nostri Stati – il massimo del profitto!

Ecco, dunque, anatomizzata e resa intelligibile anche quest’ennesima truffa che il “Liberismo” ha riservato alle nostre società.

Conoscendo, ora, la natura ed il ruolo reale dei diversi attori di quest’abominevole e grottesca rappresentazione epocale che abbiamo ormai l’abitudine di definire il mondo contemporaneo, chiunque, tra i lettori di quest’approfondimento, potrà, da questo momento, agevolmente individuare e facilmente riconoscere l’hybris a cui mi sono riferito all’inizio di quest’articolo.

Detto altrimenti, in che consisterebbe, dunque, la dismisura, l’eccesso e/o l’oltraggio del “Liberismo” nei confronti dei cittadini dei diversi Stati del mondo?

A mio avviso, consiste principalmente nel far credere al solito “uomo della strada” (ingenuo e sprovveduto per definizione) che la medesima “mano invisibile” che dovrebbe immancabilmente contribuire ad arricchire ognuno di noi (ma, in realtà, rimpingua soltanto qualcuno, impoverendo sempre di più – salvo le classiche eccezioni che confermano la regola – chi è già povero o diseredato!), è ugualmente responsabile – di tanto in tanto (sic!) – delle crisi economiche (come se queste ultime fossero un casuale o involontario incidente della vita e della Storia…) che, da all’incirca due secoli e mezzo, continuano ciclicamente ad affliggere e tormentare l’insieme delle nostre società.

Questo, quando chiunque abbia un minimo di infarinatura a proposito dell’Economia politica, sa benissimo che il cosiddetto “Libero mercato”:

- E’ solo ed esclusivamente il “Mercato” delle Multinazionali e dei Trust finanziari che tende invariabilmente a spazzare via i singoli operatori. In altri termini: per un Bill Gates (il Sig. “Avviso Porte”, si potrebbe liberamente tradurre in italiano!) che riesce a fare fortuna dal nulla, quanti “poveri cristi” ci lasciano le penne, cercando o sperando di poterlo davvero diventare? E se, per pura ipotesi, tutti riuscissimo a diventare Bill Gates che valore avrebbe essere un Bill Gates?

- E’ come un “fiume in piena”, a cui se non vengono preventivamente e drasticamente innalzati gli “argini” della morale societaria e della legge, distrugge tutto al suo passaggio; mentre invece, se “incanalato” precauzionalmente all’interno delle succitate “barriere di contenimento” ed inframezzandogli sul suo percorsco magari una turbina, è in grado di produrre altra energia, ed ancora altra energia (l’esempio più conosciuto, a quanto ne so io, sembra essere stato il miracolo economico italiano degli anni ’30).

- Produce sistematicamente delle situazioni economiche, nelle quali i prezzi delle differenti Nazioni tendono sempre ad allinearsi su i più alti ed i salari su i più bassi.

- Tende regolarmente a monopolizzare i guadagni ed a socializzare le perdite. In altre parole, ciò che i vari promotori ed organizzatori del “Mercato globale” riescono a rapinare all’interno di uno Spazio economico, lo tengono in larga parte per sé; e quando il medesimo “mercato” che hanno precedentemente investito incomincia inevitabilmente a saturarsi, licenziano le maestranze e delocalizzano le loro imprese, lasciando sulle braccia dell’intera società, le spese e gli oneri economici e sociali dei danni che, con il loro ordinario agire, sono riusciti a realizzare.

- Agisce sistematicamente, nei confronti dei diversi Spazi economici del mondo, come l’andirivieni incessante ed incontrollabile delle maree: vale a dire, ruba qui e porta lì; poi, ruba lì e porta qui; dopo ancora, ruba di nuovo qui e porta di nuovo altrove; etc. All’infinito. Con la differenza che questa volta (cioè, da una quindicina di anni a questa parte), il cosiddetto Occidente (Stati Uniti, Europa, Giappone ed alcuni Paesi del Sud-Est asiatico) non potrà affatto essere in grado – dopo aver impoverito le nostre Nazioni (nonostante tenti di far ridurre i salari dei nostri lavoratori, al medesimo livello di quelli che vengono attualmente praticati in Cina ed in India) – di defraudare gli ex-Paesi emergenti (diventati, ormai, a pieno titolo, delle vere e proprie potenze, finanziarie, bancarie, industriali, commerciali e logistiche), per due semplici ragioni: la prima è che l’Occidente ha ormai perduto – a netto vantaggio della Cina e dell’India (insomma, per fare più soldi, l’Occidente ha venduto a quei Paesi, perfino la “corda per farsi impiccare”!) – il monopolio dei suoi cinque tradizionali pilastri economici: la finanza, la banca, l’apparato industriale, le infrastrutture commerciali e quelle dei trasporti; la seconda, è che – sarà bene tenerlo a mente – la Cina e l’India sono due potenze nucleari, a cui sarà molto difficile, in un prossimo futuro, cercare di togliere il “tappetino” da sotto i loro piedi, per tentare di scippare le loro attuali e future ricchezze, nella speranza di poterle, un giorno, ri-portare in Occidente!

Individuata chiaramente l’hybris, è sufficiente fare mente locale, per capire la valanga di bugie che ogni giorno ci vengono raccontate dai nostri “politici” e sistematicamente rilanciate sul mercato dai vomitevoli e supersperimentati pennivendoli del medesimo sistema, per cercare di farci tranquillamente o inconsapevolmente trangugiare l’amara pillola del nostro, ormai (nella sopraindicata situazione), impossibile futuro…

Gli Stati e gli Istituti bancari del cosiddetto Occidente (Italia ed Europa comprese), da circa 10/15 anni, sono quasi tutti in fallimento o, nel peggiore dei casi, in semplice e celata bancarotta fraudolenta. Il denaro (quello vero) essendo, nel frattempo, filato via, come era naturale che fosse, in quelle parti del mondo che gli possono più facilmente garantire di potere largamente decuplicare o centuplicare, in rendite e profitti, le somme inizialmente investite.

Cosa ci fanno credere, invece, i nostri “politici”? Ovviamente, che da noi tutto va bene! Anzi, meglio…

Vediamo il funzionamento dei loro premeditati e criminali marchingegni finanziari.

I nostri Stati – ormai irrimediabilmente asserviti alle Caste politiche bipartisan che sono al servizio del “liberismo/globalismo” – per tentare di tenere la “bocca fuori dell’acqua” alle popolazioni dei nostri Paesi e non farle immediatamente ed irrimediabilmente affogare, travolte dai debiti, nell’insolvibilità e nel caos, emettono dei Buoni del tesoro (cioè, dei pagherò a breve o lunga scadenza, su cui lo Stato stesso dovrà, presto o tardi, pagare degli interessi) e li affidano a delle banche private (Bankitalia o BCE o Federal Reserve = kif, kif!). Le medesime Banche, dal canto loro, per simulare un formale pagamento, danno in cambio ai nostri Stati, dei bellissimi biglietti di carta colorati e stampati che sono concessi in locazione, al loro valore facciale, ai nostri Ministeri del Tesoro che a loro volta, dopo averci pagato il famoso “signoraggio” (altri debiti, per il contribuente), li incamerano sotto forma di moneta contante e li utilizzano per “tappare i buchi” più urgenti che sono stati precedentemente generati dalla loro medesima gestione del Paese.

Da un punto di vista contabile, le due vicendevoli operazioni di cassa non sembrano fare una piega: entrambi gli “attori” (gli Stati + le Banche) di questa moderna commedia dell’arte, depositando ufficialmente nei loro forzieri i rispettivi foglietti di carta colorati e considerandoli come dei veri e propri attivi, sono in grado di presentare, agli eventuali audit pubblici o alle più mediatizzate Agenzie di rating, dei corretti bilanci. Al punto che ambedue gli “attori” possono continuare ad apparire – agli occhi del profano (ma non degli speculatori borsistici!) – come dei soggetti economici e giuridici perfettamente solvibili.

Ma chi pagherà, alla fine (questo, naturalmente, nessuno ce lo dice!) il loro ingegnoso “giochino” delle suddette reciproche “cambiali”? Noi. Semplicemente noi! Gli “scemi del villaggio”… Con l’acre e spossante sudore della nostra fronte ed i nostri immani, quotidiani ed ingiusti sacrifici.

Ci sarebbe da evocare altre ed infinite bugie, come quelle, ad esempio, relative al supposto “rilancio” dell’economia dei nostri Stati, abbassando i salari, diminuendo le spese pubbliche, abolendo gli assegni sociali, togliendo le tasse alle imprese, alzando l’età pensionabile, decurtando le pensioni già esistenti (non quelle milionarie dei “signori della politica”, chiaramente!) ed eliminando la loro reversibilità per i poveri vedovi e vedove; oppure, come quelle riguardanti il “rilancio” della produzione dell’auto (se anche riuscissimo a regalare, a costo zero, 1 milione di vetture ai primi che ne facessero richiesta, dove le parcheggeremmo e come faremmo, ormai, a circolare sulle nostre strade o all’interno delle nostre città?), permettendo contemporaneamente ad un qualunque Marchionne di turno di riportare la figura ed il ruolo del lavoratore, alla medesima miserevole condizione di semplice bestia da soma, senza nessun diritto, descritta da Marx, nella prima parte del suo Capitale; o ancora, come quelle concernenti il “riassorbimento” dell’attuale disoccupazione, cercando di accogliere, a più non posso, all’interno di un “bicchiere” chiamato Italia o di un “boccale” chiamato Europa, l’immenso e brulicante Oceano di miseria che il “Liberismo” stesso, con le sue guerre (per la pace) e lo sfuttamento capillare dell’insieme delle risorse dei Paesi del Terzo mondo, ha provocato sul nostro Pianeta. Ma fermiamoci qui…

Avendo capito (spero…) quanto mi sono permesso fino ad ora di evidenziare, il lettore, en passant, avrà altrettanto compreso il significato ed il senso della némesis greca o, se si preferisce, della collera o della vendetta divina a cui ho ugualmente fatto riferimento all’inizio di questa mia riflessione.

Intendiamoci, però. Chiunque sia riuscito a focalizzarne ed afferrarne il concetto, non mi venga ugualmente a chiedere, per cortesia, in che modo o maniera mettere in pratica la sua individuale collera e vendetta nei confronti dei delinquenti di cui sopra e di quanti, fino a questo momento, hanno legalmente permesso a questi ultimi di esercitare impunemente la loro “arte criminale”: quella, cioè, che ci sta letteralmente e collettivamente portando alla rovina, se non facciamo nulla per fermarla.

L’unica cosa che posso consigliare al lettore in questo contesto, è che le nostre possibili ed inesorabili rivincite e le eventuali e sacrosante sanzioni che dovranno comunque essere inflitte ai responsabili della catastrofe generalizzata che – da tempo, ormai – siamo costretti a subire e sopportare sulla nostra pelle, potranno davvero essere realmente esercitate, soltanto quando riusciremo ad avere il coraggio civile e morale di deporre momentaneamente al guardaroba le nostre reciproche “fisse” ideologico-politico-partitiche-religiose. Dopo di ché, mettendo assieme la totalità delle nostre forze e delle nostre capacità e competenze, potremo essere senz’altro in condizione di ribellarci e di combattere e sconfiggere qualunque nemico. E questo, per poterci finalmente liberare dall’assurda e nefasta iattura del “liberismo/globalismo” e riconquistare, per noi ed i nostri figli, nonché per i figli dei nostri figli, le irrinunciabili e, fino ad oggi, furbescamente estorte o ladronescamente defraudate prerogative di libertà, indipendenza, autodeterminazione e sovranità politica, economica, culturale e militare che – fino a prova del contrario – spettano, per diritto naturale, a qualsiasi Popolo-Nazione del mondo che ancora sia in grado di essere cosciente e degno di questo nome!

Alberto B. Mariantoni



sabato 13 agosto 2011

L'Era della Rassegnazione? (Un articolo di Marco Tarchi - da meditare)

L'ERA DELLA RASSEGNAZIONE (da La Roccia di Erec - Idee - Diorama n. 303)
Chi ha più di trentacinque anni, e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del muro di Berlino. Quella data dell’ottobre 1989 parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta, e il crollo dell’impero sovietico che di lì a poco ne seguì non fece che confermare la prima impressione. Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti. Nelle ristrette ma vivaci cerchie che si attribuivano l’etichetta del non-conformismo e non avevano mai digerito molte delle conseguenze del disastroso secondo conflitto mondiale, a partire dal soggiogamento dell’Europa alle due superpotenze e dalla sua vertiginosa perdita di influenza sullo scacchiere planetario, si arrivò a supporre che si dovessero abbandonare le elucubrazioni sulla possibile costruzione di una Terza via di organizzazione della società diversa dal liberalismo e dal socialismo e si dovesse passare con urgenza alla riflessione su una Seconda via, dal momento che a rimanere in piedi era ormai quasi solo quel modello politico-culturale che si era dato – abusivamente ma efficacemente – il nome di Occidente e si fondava, per dirla con le parole di un analista che pure non ne è un critico prevenuto, su “una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane”.[1] Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, si pensava, la partita si sarebbe giocata tra quella vecchia formula che tante cattive prove aveva dato di sé e una visione alternativa ancora in gran parte da costruire, ma di cui esistevano i presupposti. Sgretolate le fondamento dell’esaurita dicotomia sinistra/destra, molte e sino ad allora disperse energie sarebbero confluite attorno a un progetto che all’individualismo opponeva la solidarietà organica, la tutela dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli; al cosmopolitismo omogeneizzante che faceva da sostrato all’internazionalismo opponeva l’elogio delle identità plurali e della diversità culturale; al dominio dell’economia sulla politica opponeva non solo il rovesciamento di quel rapporto ma anche il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali e di “qualità della vita”, in ogni campo.
Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni, che a volte appaiono risibili persino a una parte di coloro che li avevano alimentati. Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune. Al bipolarismo che aveva fondato un condominio sul pianeta si è sostituita una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo nel proposito, fin qui incompiuto, di affermare un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto. I guasti di un capitalismo sempre meno umano e produttivo sono stati moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere finanziario, che con la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale. L’esplosione dei flussi migratori di massa ha assecondato le aspettative di chi, da molto tempo, esaltava le società multietniche per le loro capacità di dissolvere le “barriere” identitarie e disgregare le appartenenze a gruppi stabili, in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è l’individuo. La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione di una dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda.
E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo – ipocrita e a geometria variabile secondo le convenienze del momento – ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per il voto “sbagliato” del corpo elettorale, sono additate alla pubblica esecrazione.
In questo scoraggiante panorama, i “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé. Hanno iniziato alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra e largamente predominanti nelle università e nell’editoria, che nel volgere di pochi anni si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una serie disarticolata di versioni progressiste del modello occidentale. E nel loro caso il tragitto non è stato particolarmente disagevole, date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato esternazioni, conversioni, ripensamenti, prese di posizione. Più accidentato, ma non troppo dissimile nella direzione di marcia, è stato l’itinerario delle molto più esigue truppe che avevano mosso sino ad allora i propri passi in un perimetro convenzionalmente definito “di destra”. Qui, ad attraversare le linee per primi non sono stati i pochi che si erano scelti ruoli di intervento culturale –di fatto, un pulviscolo di soggetti, mai fra di loro troppo coesi, il cui raccordo passava solo dalla collaborazione alle modeste testate giornalistiche “di area” – ma gli esponenti politici, ansiosi di cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità, da sempre irraggiungibile albero della cuccagna. Per appagare la peraltro comprensibile aspirazione, costoro non si sono fatti scrupolo di abbandonare quasi immediatamente i segni più evidenti dell’imbarazzante diversità coltivata nel tepore della nicchia in cui avevano trascorso decenni, e con lo stesso vigore con cui in precedenza avevano respinto come eretiche le proposte di evoluzione e riflessione autocritica che erano state loro rivolte da navigatori borderline del loro bacino d’utenza, hanno abbracciato la via di ben più decise e spudorate abiure. Gli “intellettuali d’area” li hanno seguiti a distanza, a volte con disagio, a volte con la vana speranza di vedersi riconosciuti ruoli di precursori e mentori.
Sarebbe fuori luogo – non in assoluto, ché anzi una storia di queste transumanze dovrà pur essere scritta un giorno, senza furori ma anche senza compiacenze, ma in questa sede – tracciare momenti e tappe di questo ripiegamento convergente, da sinistra e da destra, verso quel “centro medico” (per dirla con il Cacciari dei tempi belli) liberale che ha fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico e ha piegato quel poco che ne resta ai propri fini, facendone lo spauracchio delle “nostalgie del totalitarismo” utile a zittire ogni voce di radicale dissenso. Ci vorrebbero troppo tempo, troppo sforzo di memoria, troppa documentazione, troppa cura dei dettagli. Ma quanto mai opportuno è descrivere il punto di arrivo di quel percorso, a cui non si può dare che un nome: l’avvio di un’era della rassegnazione. Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana. Rassegnazione ad accettare, in un primo momento, la mentalità diffusa del nostro tempo come immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi. Rassegnazione a pensare che, in fondo, a Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male. E, soprattutto, rassegnazione a rinunciare a ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa cosa si lascerebbe ma non cosa potrebbe scaturire dal cambiamento.
È per questo che, a sinistra come a destra, anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose. E prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitivi e inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente. Criticare l’americanismo? È fuori moda. Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di occidentalizzazione del mondo? Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo. Indignarsi di fronte ai crimini che Usa ed alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano? Sa di litania risaputa. Prendersela con la Nato, con l’Onu, con il profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che Christopher Lasch fustigava? Appare, a seconda dei casi, sconveniente o inutile.
Dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo in cui l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato. All’orizzonte non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate. C’è chi ha, con riferimento alla visione del mondo “specialmente forte nell’Europa occidentale” cui sopra facevamo riferimento, ha creduto di individuare nel voto crescente per formazioni politiche populiste un segnale di reazione, poiché quella visione “agli occhi delle popolazioni europee appar[irebbe] ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali”, e ne ha tratto la conclusione che “le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico-telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli – cioè, nella maggioranza –, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti”[2].
Può essere. Ma, a parte il fatto che questa rappresentazione dei fatti continua a perpetuare l’immagine di una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: una sorta di relitto – portata a resistere a tendenze che, evidentemente, i forti, i giovani, gli istruiti accolgono con favore se non con entusiasmo, quasi che fossero foriere di effetti positivi, il problema è che quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli. E, parimenti, nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi in uno zoo: occuparsi giorno per giorno della sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine.

NOTE
[1] Ernesto Galli della Loggia, La frattura culturale, in “Corriere della Sera”, 20 aprile 2011, pag. 1. Il riferimento qui è alle élites che indirizzano l’azione dell’Unione europea, ma ci pare si possa estendere senza abusi al modello generale che le ispira.
[2] Ibidem.

[tratto da Diorama letterario n. 303]