martedì 21 ottobre 2008

A proposito della chiusura delle scuole con meno di 50 alunni.

MODESTA PROPOSTA PER PREVENIRE POLEMICHE INUTILI E MAGARI PER RISOLVERE – PARZIALMENTE - IL PROBLEMA DELLO SPOPOLAMENTO E DELL’ABBANDONO DEI PICCOLI COMUNI
PREMESSA

Con l’art. 3 del Decreto n. 154/08 (Definizione dei piani di dimensionamento delle istituzioni scolastiche rientranti nelle competenze delle regioni e degli enti locali) il Governo, agendo per l’attuazione di una normativa voluta fin dal 1998 dall’allora Governo Prodi e dal Ministro Bassanini, avente lo scopo di “razionalizzare” la rete scolastica, cioè ridurre i costi per la scuola, ha voluto rendere inderogabili le norme, ripetiamo varate fin dal 1998, ed ha imposto alle Regioni, tutte sino ad oggi inadempienti, ad ultimare, di concerto con i Comuni interessati i Piani di ridimensionamento delle istituzioni scolastiche, rientranti nelle competenze delle regioni e degli enti locali, in modo che il piano di razionalizzazione della rete scolastica nazionale possa cominciare ad essere attuato per l’inizio dell’anno scolastico 2009/2010.

‘E evidente che l’imposizione di un termine così breve può suonare come un attacco alle competenze delle Regioni ed a tutto il sistema delle Autonomie Locali, se non fosse che l’intervento del Governo si limita a sollecitare un adempimento per il quale Regioni (e i Comuni interessati) avrebbero potuto cominciare a provvedere fin dal 1998, anno in cui fu approvata la norma voluta dal Ministro Bassanini (governo di centrosinistra).
Non serve a nulla, oggi, protestare e strapparsi le vesti, come fa la governatrice del Piemonte, Mercedes Bresso, o tanti esponenti di sinistra del mondo della scuola, anche sindacali, che in questo giorni guidano la protesta anti-Gelmini, imputandole anche questo attacco alle scuole dei piccoli comuni, dei Comuni montani, delle piccole isole, ecc.

Indubbiamente è strano che un governo di centrodestra, cerchi di mettere in pratica un provvedimento voluto, ma non attuato, né dal Governo di centrosinistra che lo approvò, ne da quelli che si sono succeduti alla guida del paese dal 1998 ad oggi. ‘E strano su questo tema il silenzio della Lega; infatti soprattutto la Lega, ma anche il Pdl, hanno dimenticato gli interessi della gente di Montagna che li ha votati . Per evitare lo spopolamento delle Valli da parte dei giovani e delle famiglie, i piccoli Comuni e le Comunità Montane da anni, con grandi sacrifici ed impegno, mantengono le scuole in loco con la massima economia ed efficienza.
Ancora più paradossale è poi il fatto che i partiti di centrosinistra che quel provvedimento votarono nel 1998, oggi protestino contro l’attuale governo che ne pretende l’attuazione.

PROPOSTA

Premesso quanto sopra e ribadito che comunque le Regioni hanno avuto 10 anni di tempo dal 1998 ad oggi per redigere i Piani di ridimensionamento delle reti scolastiche e che questi 10 anni li hanno sprecati, occorre verificare cosa si può fare in concreto per ribaltare la situazione.
Rileviamo ancora come la chiusura dei plessi scolastici in cui non si raggiungano i 50 alunni, una volta attuata farà risparmiare (quanto?) nel bilancio della P.I., ma scaricherà delle spese sui Comuni e sulle famiglie, ad es. per il trasporto alunni, o per l’ampliamento delle sedi che accoglieranno gli alunni dei plessi chiusi, scaricando sui comuni più deboli spese insostenibili, oltre ad aumentare i disagi delle famiglie e degli scolari.
Occorre inoltre tener presente che i piccoli comuni rappresentano una realtà strategica per il presidio del territorio e la tenuta culturale ed identitaria del Paese e l'imposizione di obiettivi numerici a scala regionale, rischia di creare situazioni di svantaggio rispetto alla piena garanzia del diritto all'istruzione per i cittadini delle aree più marginali, tra le quali molti piccoli Comuni, non solo di montagna, o delle piccole isole, ma anche di tante realtà collinari, o di campagna. Non dimentichiamo la specificità del nostro territorio e la particolare sofferenza di tante aree che i minacciati tagli alle sedi scolastiche contribuiranno ad accentuare, perché la necessità di garantire ai propri figli la possibilità dell'istruzione, senza doverli sottoporre fin da piccolissimi ai sacrifici e ai disagi del pendolarismo, spinge le famiglie ad emigrare laddove il servizio è garantito.
Le scuole dei piccoli Comuni, infatti, non solo rappresentano un servizio essenziale che contribuisce alla permanenza abitativa di famiglie e giovani generazioni, ma sono anche un importante, ed a volte l'unico, presidio educativo e culturale del territorio, in cui svolgono un'opera insostituibile di salvaguardia e sono portatrici di cultura, saperi e tradizioni.
Tutto ciò premesso, noi riteniamo che da parte di tutti gli attori interessati, Regioni, Comuni sedi di plessi scolastici a rischio, Provincie (se vogliono uscire dal grigiore della loro percepita inutilità), istituzioni scolastiche, occorre mettere in campo tutte le risorse di idee e di progetti per rilanciare la funzione dei piccoli Comuni, come sedi di iniziative culturali, ma anche come luoghi in cui, sotto tanti aspetti, la qualità della vita può essere considerata migliore di quella dei grandi centri urbani.
In questo progetto le Regioni hanno un grande potere ed una grande responsabilità, ma anche una grande opportunità: non debbono limitarsi a rivendicare le loro competenze, ma debbono, e possono, agire concretamente. Le Regioni, infatti, sono erogatrici dei fondi per l’edilizia residenziale pubblica attraverso le ATC, e per l’edilizia residenziale agevolata e convenzionata. Ebbene sarebbe sufficiente che le Regioni, destinassero una parte cospicua di tali fondi alla realizzazione di unità alloggiative da assegnare a giovani coppie o a coppie che abbiano figli in età scolare, nei piccoli comuni (non importa se montani o collinari, o di pianura), e chiedessero anche alle Fondazioni Bancarie di indirizzare su tale obiettivo i loro finanziamenti.
I Sindaci di tali Comuni dovrebbero impegnarsi a trovare le risorse per reperire e mettere a disposizione i terreni necessari, a basso costo, non solo, ma anche per assicurare a giovani coppie che volessero fissare la loro residenza nel comune una serie di agevolazioni (anche minime, ma significative, in termini di messaggio promozionale della volontà di accogliere nuovi nuclei familiari, ad es. l’esonero dalle spese per il rilascio della Carta d’identità, l’esonero dal pagamento della Tassa Raccolta Rifiuti per i primi tre anni).
Gli alloggi dovrebbero essere costruiti, secondo ferree norme di risparmio energetico e di rispetto per l’ambiente. La progettazione dovrebbe essere affidata a giovani architetti, all’uopo formati e selezionati dalla Regione. La costruzione, dovrebbe essere affidata, con procedure semplificata a imprese aventi sede in Regione, o, meglio ancora, nella Provincia in cui si realizza l’intervento.
Nell’assegnazione degli alloggi costruiti nei piccoli Comuni individuati nel piano regionale, si assegnerebbe un punteggio maggiore alle coppie giovani e un punteggio ancor più elevato a quelle con figli, anche in relazione all’età di questi ultimi: bambini più piccoli = punteggio più elevato), coppie che abbiano il requisito minimo della residenza in regione da almeno cinque anni e sul territorio nazionale da almeno 10, con ulteriore punteggio preferenziale per chi si sposta dai centri maggiori.
°°°
Riteniamo che si tratti di una proposta molto semplice ed attuabile, con un po’ di buona volontà da parte di tutti; in particolare ci rivolgiamo ai Sindaci dei piccoli Comuni perché la facciano propria e chiedano alle regioni di uscire dalla consuetudine di intervenire solo o principalmente sui grandi centri urbani.
Trieste 23 Ottobre 2008
Andrea Ballauri, consigliere comunale di Varisella (TO)
Massimo Bisio. Vice sindaco di Fresonara (AL)
Angelo Cignatta, Consigliere Comunale di Carrosio (AL)
Aldo Rovito, Consigliere Comunale di Alessandria

L’ex Caserma dei vigili del Fuoco “regalata” agli occupanti abusivi. Dove finiscono legalità e socialità?

“Apprendiamo con “stupore”, dichiara il portavoce Provinciale del partito La Destra di Francesco Storace, l’avv. Aldo Rovito, “della decisione del Presidente Filippi, di regalare, immaginiamo in comodato d’uso gratuito, i locali dell’ex Caserma dei Vigili del Fuoco a coloro che ne hanno fatto oggetto di occupazione abusiva ed illegale”.
“Noi avevamo chiesto che l’immobile fosse messo a disposizione, di concerto con l’ATC e con il Comune di Alessandria, per costruire alloggi di edilizia economica e popolare, per sopperire alla carenza di almeno 600 alloggi di questa tipologia esistente nel solo Comune di Alessandria: la Giunta Filippi intende invece premiare l’ala estrema della sua coalizione, creando così un pericoloso precedente nella nostra Città, ed avallando il ripetersi di episodi di illegalità (occupazione abusiva di alloggi, sfratti bloccati, ecc.), dei quali il Presidente dell’ATC, Gianni Vignuolo, si è già pubblicamente lamentato.”
“Auspico, conclude Rovito, “che all’interno della Giunta, ci sia ancora chi, predicando in continuazione rispetto delle regole e rispetto della legalità, faccia sentire la propria voce e si opponga a questo atto illegittimo e, comunque inopportuno. E l’opposizione, se c’è, batta un colpo!”
A seguito della diffusione di questo comunicato, registriamo solo una presa di posizione della Lega nord, con una dichiarazione del suo presidente Provinciale, Tino Rossi; e gli altri ? PdL in primo luogo?

venerdì 17 ottobre 2008

PECORELLA: Chi era? (chi è?)

Il voto segreto rinforza la memoria?
Tra memoria negata, memoria ripudiata e memoria corta, lo schieramento destro della politica italiana ormai non conosce rivali. Il tempo passa ed i tentativi di dimenticare, di giustificare, di sminuire, addirittura di negare, crescono a dismisura. Allora, è utile che qualcuno si trasformi in dose massiccia di ‘memoril’ perché il tempo non cancelli le azioni ed i pensieri degli uomini politici con un semplicistico colpo di spugna. Appunto perciò SPIGOLI saluta con gioia la ‘trombatura’ di Gaetano Pecorella - fortemente voluto dal Cavaliere come giudice della Corte Costituzionale - e, ‘obtorto collo’, un sentito ringraziamento va ad Antonio Di Pietro ed agli ex ‘compagni’ dell’avvocato-parlamentare di Forza Italia.Non tanto, o non solo, perché il suo percorso politico, prima di approdare alla ‘corte berlusconiana’, risulta alquanto originale. Nella Milano degli anni ’70, era un simpatizzante del Movimento studentesco, ha quindi lambito gli ambienti di Potere operaio, collaborando col servizio giuridico di Soccorso Rosso che prestava aiuto legale e finanziario ai ‘compagni vittime della repressione’, infine fu candidato alle regionali lombarde con Democrazia proletaria.Chi era in quegli anni Pecorella lo raccontava il Corriere della Sera: «Assai vicino al Movimento studentesco, ne condivide le idee, firma manifesti e proteste, ma evita di issare cartelli e striscioni durante le manifestazioni di piazza… indossa la toga e difende quelli che nei cortei agitano i pugni chiusi. Ci sono gli avvocati di Soccorso rosso, di cui è punta avanzata Giuliano Spazzali e c’è il gruppo degli ‘avvocati democratici’: Pecorella detto ‘Nino’, Marco Janni, Luca Boneschi, Gigi Michele Mariani, Michele Pepe» (1).Il sincero ringraziamento all’attuale opposizione parlamentare è motivato soprattutto da un episodio che risulta impossibile cancellare dalla memoria di chi ha vissuto o conosciuto l’antifascismo militante. Siamo nel 1987 al Tribunale di Milano, dopo ben 12 anni si svolge il processo agli assassini di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù milanese ammazzato da militanti di Avanguardia operaia a colpi di chiave inglese ‘hazet 36’, proprio quella lunga ‘appena’ quaranta centimetri. Gaetano Pecorella è l’avvocato difensore di Saverio Ferrari, imputato - e condannato a 5 anni e 6 mesi - per un’aggressione collegata all’omicidio Ramelli, che aveva visto come co-protagonisti alcuni assassini di Sergio, ed aveva causato il grave ferimento di tre ragazzi: Fabio Ghilardi (due operazioni, coma, polmone d’acciaio, epilessia permanente), il 16enne Giovanni Maida (quattro fratture alla mandibola ed una alla spalla) e Bruno Carpi (doppio sfondamento della calotta cranica).Durante l’arringa, il penalista - forte del suo passato politico ed ancora lontano dai banchi parlamentari azzurri - si lasciò andare appassionatamente, come raccontato dalla cronaca giudiziaria di una fonte insospettabile come “l’Unità”: «Quando i diritti fondamentali di una comunità non vengono realizzati, come la messa al bando del MSI, la comunità ha il diritto di riappropriarsi di quei diritti… Togliere agibilità politica e spazi di aggregazione ai fascisti non è un reato, ma la legittima applicazione di un principio costituzionale» (2).Frase che un decennio dopo, Pecorella - folgorato sulla via di Arcore con la sua prima candidatura al Parlamento - ha negato, forse anche perché nel collegio uninominale erano necessari anche i voti degli elettori di Alleanza nazionale: «Una frase che sicuramente non ho mai detto. Primo perché non mi riconosco in quei concetti e in quei termini, secondo perché da avvocato, avrei reso un pessimo servizio al mio assistito» (3).Eppure, Ignazio La Russa - in quel processo avvocato della famiglia Ramelli - appena due anni fa confermava: «Lui fu uno dei pochi che nell’arringa finale ribadì che uccidere un fascista era meno grave. Invece gli avvocati Giuliano Spazzali e Giuliano Pisapia misero da parte la militanza e fecero prevalere le loro capacità giuridiche» (4).Chissà, se tra le decine di voti che questa mattina - nel segreto dell’urna - sono mancati a Pecorella ci saranno state anche le schede del Ministro della difesa e di tanti altri ex missini ed ex camerati di Sergio. Mi piace crederlo…
Faber
1) Corriere della Sera, 22 giugno 19982) l’Unità, 6 maggio 1987(articolo citato nel volume “Sergio Ramelli: una storia che fa ancora paura” curato da Guido Giraudo - Sperling & Kupfer Editori)3) Corriere della Sera, 3 giugno 19984) Magazine Corriere della Sera, 9 febbraio 2006

SAVIANO:rimpiango il PCI ed il MSI che si battevano contro la mafia

Dal Corriere della Sera: Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan»
Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia «Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»


ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato. Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione. Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ». Chi è stato il più insistente? «Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse». Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare». A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più grande? «L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan». Si è chiesto il perché? «È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra e i suoi lettori».Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione? «Acuisce la solitudine, questo sì. Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro, cosa immagina? «Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno». E la realtà? «Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».
Marco Imarisio Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan» (dal Corriere della sera)
Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia
«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»
ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato. Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione. Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ». Chi è stato il più insistente? «Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse». Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare». A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più grande? «L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan». Si è chiesto il perché? «È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra e i suoi lettori».Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione? «Acuisce la solitudine, questo sì. Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro, cosa immagina? «Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno». E la realtà? «Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».
Marco Imarisio
Fin qui l'intervista.Ora una considerazione personale. La Destra, quando parla di valori, deve, tra i valori da difendere, comprendere anche la lotta alla mafia.Non tanto per il ricordo del passato (il Prefetto Mori, ecc.) ma sopratutto per tutta una tradizione che viene dal MSI e dalle sue battaglie per la legalità che furono anche battaglie contro la mafia. Vorrei qui ricordare Angelo Nicosia, il giudice Borsellino e il giornalista Beppe Alfano, tutti cresciuti alla scuola del MSI e tutti a vario titolo impegnati nella lotta alla mafia. Riprendiamo le loro battaglie!

giovedì 16 ottobre 2008

Anti-Gelmini, ma dove vivete?

Sui muri del Paese dove abito sono comparse delle scritte: «Via i romeni da B.». Ne parlo con la giovane mamma romena che fa i mestieri a casa mia. «No, no, adesso mia figlia è integrata», mi dice. Prima, la bambina (9 anni, bravissima a scuola, forse l’unica che legge libri anche a casa) non era integrata: nel senso che i compagni la minacciavano fisicamente, la angariavano attivamente. Poi la mamma ha parlato alla maestra, e le cose sono migliorate. L’attuale integrazione della scolara romena nella terza elementare di un paesino viterbese consiste in questo: i suoi compagni di scuola italiani non giocano con lei perché non ha abiti firmati. Quando viene interrogata, ridono per la sua pronuncia (ottima, molto più italiana che romanesca). Quando, su domanda dell’insegnante, dice in classe i nomi di mamma e papà, tutti i compagni ridacchiano, e la deridono, perché sono nomi «strani». Una volta, una maestra ha chiesto a tutti di costruire il loro albero genealogico. La piccola romena non ha voluto, perché si vergogna dei nomi dei suoi genitori e nonni. Quando la classe esce per qualche motivo, ogni compagno tiene per mano un altro. Lei, nessuno la vuol tenere per mano. Per fortuna c’è in classe un bambino albanese, che nessuno vuol tenere per mano, e lei va con lui. Quando giocano, lei è esclusa dai giochi, per una intesa corale degli scolari italiani.
Insomma, la «integrazione» della bambina pare consistere dunque nel fatto che, per ora, i compagnetti griffati si astengono dallo sbranarla viva. Quando le mamme vanno a parlare con le insegnanti, le altre mamme non rivolgono la parola alla mamma romena, stanno fra loro ostentatamente. «Non si confondono» con una «serva», per di più «immigrata». Ora che sono apparse le scritte sui muri ho paura che la bambina sia in pericolo. E quindi, vorrei sommessamente chiedere agli insegnanti, ai pedagoghi e ai «progressisti» in genere che rumorosamente difendono i tre insegnanti per classe: possibile che tre insegnanti non vedano che una bambina viene discriminata e mortificata, per motivi ignobili? Che non corrano ai pedagogici ripari? Mi piacerebbe chiederlo ai presidi delle «Facoltà di Scienze della Formazione» che, riuniti in «conferenza», si sono scagliati contro la Gelmini «nell’interesse dei bambini, delle famiglie e del futuro del nostro Paese», ed assicurano: «Il modulo organizzativo della scuola primaria, sancito dalla legge n.148/1990, prevedendo tre docenti su due classi, ha consentito ai docenti stessi un progressivo approfondimento dell’ambito disciplinare insegnato, ed è stata dunque una misura che è andata nella direzione di un irrobustimento dell’alfabetizzazione di base, oltre a garantire una pluralità di punti di vista preziosa per sviluppare l’intelligenza nella molteplicità delle sue forme. Un solo maestro può limitare l’esperienza socio-affettiva degli alunni, che risulta invece arricchita dall’attuale pluralità di figure». Umilmente vorrei domandare: non hanno il dubbio che la loro pedagogia triplice abbia fatto cilecca proprio nello «sviluppare l’intelligenza nella molteplicità delle sue forme», visto che dilaga il bullismo da quattro soldi, prova certa di intelligenze mai sviluppate, del tutto prive di capacità di apprezzare «pluralità dei punti di vista» culturali? Non vediamo altro, negli scolaretti con zainetto firmato, che limitatissima «esperienza socio-affettiva», la primordiale malvagia divisione fra «noi» e «loro», tipicamente tribale. Viene persino il dubbio: magari nella diseducazione enorme, arrogante e stupida che attanaglia la nazione e si manifesta in mille forme - dalle tifoserie agli esultanti fancazzisti Alitalia - c’entra qualcosa la scuola elementare italiota? I pensosi presidi di «Scienze della Formazione» ci insegnano: «In un’economia globale basata sulla conoscenza, lo stato di salute del sistema socio-economico nazionale è legato al tenore delle competenze disciplinari e relazionali acquisiste dalle persone nei percorsi di formazione. Il nostro Paese è di fronte ad una vera e propria sfida dell’istruzione. Per affrontarla con successo occorre assicurare a tutti la padronanza delle conoscenze fondamentali dei saperi linguistici, storici e matematico-scientifici. Tale padronanza può essere garantita solo da un’alfabetizzazione forte fin dall’inizio della scuola primaria».
Sommessa domanda: come mai tanti analfabeti letterali, ma soprattutto morali, già nelle elementari, che ridono perché ci sono compagni di classe coi nomi «strani», e che dovrebbero almeno essere fatti vergognare di questa ristrettezza mentale e ignoranza provinciale? Ancora i presidi scienziati della formazione: «Non è pensabile che un singolo insegnante possa avere un’adeguata padronanza di tutti e tre questi ambiti e delle loro forme d’insegnamento. Occorre un modello combinato di formazione iniziale e in servizio dei docenti che, oltre a garantire la necessaria preparazione pedagogica e didattica, e una cultura di tipo interdisciplinare volta a preservare l’unità del sapere, assicuri l’approfondimento di un ambito disciplinare tra il linguistico, lo storico, e il matematico-scientifico». Si osa chiedere rispettosamente: quello dei tre insegnanti che ha una «parziale specializzazione» nell’«ambito storico», non potrebbe spiegare ai bambini che se il nonno della piccola romena ha un nome che finisce in -u (Popescu, ad esempio, o Ceausescu, o Jonescu, o Codreanu), è perché quei nomi sono di origine latina, e un tempo finivano in -us? E non potrebbe spiegare, il corpo insegnante che voi scienziati avete dotato di «interdisciplinarietà», cosciente delle «competenze disciplinari e relazionali» che devono far acquistare agli scolari con le scarpe griffate «nei percorsi di formazione», che quei nomi sono latini, perché i romeni d’oggi discendono dai legionari romani che l’Impero, dopo la conquista della Dacia, sistemò nelle pianure del Danubio, ciascuno col suo campicello, onde avesse un sostentamento nella vecchiaia e presidiasse, da soldato-contadino, quella zona di confine? Non potrebbe informare i piccoli ignoranti di genitori ignoranti che la lingua romena contiene l’85% di parole latine, ed ha un’identità prestigiosa, antico-romana, che quel popolo ha difeso con orgoglio per secoli di fronte alla marea slava? Altrimenti viene il dubbio che gli insegnanti che le Facoltà di Scienze Formative formano da anni, non siano capaci di alcun «approfondimento dell’ambito disciplinare» loro proprio, sia «linguistico, storico o matematico-scientifico».Clotilde Pontecorvo, docente di Psicologia dell’Educazione all’Università di Roma 1, ha approvato con vigore Mario Lodi, scrittore progressista ed ex maestro che, su L’Unità, ha scritto: «Il grembiule può anche far pensare che i bambini di una certa classe siano tutti eguali, mentre sono tutti e sempre molto diversi». E’ cosciente - chiedo col massimo rispetto - la pedagoga Clotilde che invece, con tutti i loro abitini firmati e costosi, i bambini sono davvero «tutti eguali», nel senso che sono standardizzati dalla pubblicità e dai falsi valori del consumismo, si comportano tutti nello stesso modo, usano lo stesso gergo, vogliono le stesse cose per conformismo feroce, sicchè imporre loro il grembiule è l’inizio di una pedagogia che vieta di notare le disuguaglianze stupide del lusso e della moda, vieta di deridere la povertà? «Di questa diversità che la scuola si deve fare carico e che è senza dubbio uno dei punti di forza della nostra attuale scuola primaria», continua la Clotilde: «la quale è una scuola accogliente, che ha consentito una buona integrazione degli allievi disabili, con la presenza dell'insegnante di sostegno e la riduzione del numero degli alunni per classe (...). Ma il problema nuovo, di cui il ministro Gelmini sembra del tutto inconsapevole, è il grande numero di studenti di lingua e di cultura diversa da quella italiana che sono oggi presenti nella scuola, in particolare nella scuola di base. E che soprattutto nella scuola dell'infanzia prima e poi nella scuola primaria, possono trovare lo spazio comunicativo e il tempo per poter padroneggiare la nostra lingua e la nostra cultura, in cui la presenza di più figure di insegnanti è fondamentale per consentire un dialogo ravvicinato». Scuola «accogliente», psico-professoressa Clotilde? Chieda ad una mamma romena di una bambina che si vergogna di dire i nomi dei suoi nonni per non essere derisa, che i compagni non fanno partecipare ai giochi, a cui non rivolgono la parola. Si domandi se le insegnanti si «fanno carico» di questo problema, se «aprono lo spazio comunicativo» alla piccola scolara che viene da un paese latino, i cui antenati erano soldati di Roma, e magari venivano dalla Tuscia, e i cui padri e nonni hanno combattuto e sono morti sulle nevi russe accanto ai nostri alpini, in un ieri non tanto lontano; magari, ricordare che ci fu tra le nostre nazioni una fraternità nel dolore e nella sciagura, può aiutare i piccoli ignoranti maleducati a rispettare chi, per sventura, deve emigrare.
Mi piacerebbe fare qualche domanda anche a Giancarlo Cerini, che scrive su «Insegnare», rivista di un sindacato di maestri, quanto segue: «Non basta un solo docente per aiutare i bambini ad incontrare la ricchezza dei saperi. E' un'idea povera quella che vorrebbe affidare ad una sola figura il ‘filtro’ dei tanti stimoli che giungono spesso disordinatamente ai bambini (linguaggi, forme espressive, gadget tecnologici, strumenti, riferiti al mondo dell'arte, della musica, delle scienze, della storia, delle lingue, ecc.), ma che vanno riorganizzati, ristrutturati, rielaborati per conoscere la realtà, per comprenderla, per descriverla. Ogni disciplina può diventare una ‘finestra aperta’ sul mondo, non però se viene trasmessa come un corpus statico di conoscenze già date, ma perché ognuna è uno spazio simbolico da percorrere e da agire (ecco la didattica «operativa») maneggiando - di volta in volta - immagini, rappresentazioni, simboli, codici che ‘alimentano’ e ‘vestono’ l'intelligenza (Olson)». Di grazia: come mai il risultato di tutto questo «maneggiare di immagini, rappresentazioni, simboli e codici», è il bullismo di massa, il conformismo vestimentario-pubblicitario infinitamente idiota, ributtante e per giunta impunito? Dov’è, chiedo scusa, la capacità di far diventare «ogni disciplina una finestra aperta sul mondo», se i bambini italioti dimostrano una crescente chiusura e ristrettezza mentale, spiccatamente neo-neanderthaliana? Ma di quale «ricchezza di saperi» va sproloquiando, Cerini Giancarlo? Non basta insegnare, nelle elementari, l’essenziale e il senza-tempo, l’inattuale? Non è necessario soprattutto insegnare le aste e la dignità che si deve al povero, il non giudicare dai vestiti i compagni, la famosa «uguaglianza» di fronte alla legge e a Dio, le vite degli eroi antichi, modello di dignità e di valore per i ragazzini? Magari basta un insegnante a fare da filtro, quando si tratta di insegnare la vergogna per le azioni prepotenti e ignobili e meschine, per lo stupido orgoglio del vestito e dei soldi, insomma le regole basilari della civiltà e del civismo, della cordialità e dell’amicizia. Non mi pare, ahimè, che la triplice docenza sia in grado di «riorganizzare, ristrutturare, rielaborare» i famosi «tanti stimoli che giungono disordinatamente ai bambini». Chissà, almeno per quegli «stimoli» che sono «riferiti al mondo dell’arte, della musica, delle scienze, della storia», uno dei tre insegnanti potrebbe cogliere il destro della presenza in aula di un bambino albanese per ricordare agli altri, gli ignoranti con lo zainetto firmato, una breve storia degli illirici, dicendo magari che Diocleziano era un albanese? O, data la presenza di una bambina romena che viene fatta vergognare della sua origine dagli stupidi che conoscono solo pregiudizi, parlare un po’ di quanto la cultura europea deve a personalità romene d’oggi, come Mircea Eliade, Cioran, Jonescu.Capisco che alle elementari non si parli di Eliade. Ma gli insegnanti sanno chi è Eliade? Le Facolta di Scienze della Formazione ne ha un’idea? Ma nemmeno si chiede tanto. Basterebbe che gli insegnanti elementari si allarmassero, quando davanti alla loro scuola appaiono scritte come «Via i romeni», o «morte agli albanesi», scritte evidentemente da loro scolari. E dessero almeno l’allarme, com’è loro dovere di operatori civili della educazione e della formazione. Perché questo problema è urgente, e ci riguarda tutti. Specie oggi, che i fuochi del consumismo scemo e del superfluo a rate devono forzatamente finire. La crisi, la depressione, sarà decennale, e così la penuria. Bambini educati a considerare «essenziali» telefonini ultima moda e zainetti firmati, cosa faranno quando non se li potranno permettere? Ammazzeranno i pensionati per scipparli e comprarsi la roba, il gadget tecnologico ultimo modello? Stiamo, state educando delle belve, degli esseri rozzi, insensibili al dolore altrui, moralmente bassi, incapaci di vergogna; al più basso livello di civiltà e umanità immaginabile. Magari non è tutta colpa vostra, insegnanti: anche voi siete «educati» dai tempi correnti, da Mediaset, dalle volgarità pubblicitarie, anche voi vivete come «valori» i successi dei Briatore e delle Carfagna, o delle veline. L’Italia è un Paese che, in tutti questi anni di falsità, è stato «abbandonato a se stesso» che ha smesso di sforzarsi per crescere, essere migliore, alzarsi almeno all’altezza dei tempi; ed è ritornato indietro, verso localismi padani o tribalismi napoletani, segno allarmante di regressione. Perciò anche a voi, nessun potere pubblico ha additato ciò che dovete insegnare alla nazione futura: a valorizzare l’onestà, la dedizione al bene comune, la responsabilità non solo verso il proprio stipendio ma verso il futuro della comunità, il sacrificio che nessuno vede, lo studio serio che non va in TV né all’Isola dei Famosi. Ma ora, con la vostra Scienza appresa nelle Facoltà di Formazione, dovete sforzarvi di vedere i tempi mutati, e di prepararne voi e gli scolari. Philippe Frémeaux, un economista, dice che ormai occorre una «visione dell’economia che lasci meno spazio alla cupidigia, alle ineguaglianze, al disprezzo delle conseguenze collettive dei comportamenti individuali» egoistici. Ma come si fa a preparare questi tempi di penuria, serietà e dignità, se voi per primi siete contro il grembiulino uguale per tutti, che copra le «diversità» che si comprano nei negozi, con carta di credito?
Maurizio Blondet – da: www.effedieffe.com, 9 ottobre 2008

Il RAZZISMO antiitaliano di alcuni antirazzisti andrebbe sanzionato.

Ecco le delizie RAZZISTE della societa' multiculturale, impostaci da cattolici e sinistre senza avere mai proposto un referendum:
http://www.verbavalent.com/
Italiani di merda, Italiani bastardiInserito da dacia il Mer, 2008-10-01 13:24 Voi non riuscite nemmeno a immaginare quanto sia difficile per me scrivere, tentando di non ferire le vostre povere sensibilità di piccoli bianchi, totalmente ignoranti del loro passato di carnefici di neri, ebrei e musulmani. Non conoscete nulla di quello che avete nel vostro DNA storico, vi riempite la bocca di ebrei solo per salvarvi la coscienza, raccontando di come gente tipo Perlasca - un fascista di merda che dovrebbe morire mille volte solo per essere stato fascista ed aver sostenuto fossanche per un solo minuto quel regime - ne ha salvato alcuni. Siete un popolo senza futuro perché siete un popolo senza memoria. Me ne fotto degli italiani brava gente. Anzi, mi correggo, me ne fotto degli italiani bianchi e cristiani, naturalmente brava gente. Non lo siete. Siete ignoranti, stupidi, pavidi, vigliacchi. Siete il peggio che la razza bianca abbia mai prodotto. Brutti come la fame, privi di capacità e di ingegno se non nel business della malavita organizzata e nella volontà delle vostre donne (studentesse, casalinghe, madri di famiglie) di prostituirsi e di prostituire le proprie figlie. Anche quando dimostrate un barlume di intelligenza, questa si perde nei rivoli del guadagno facile e del tirare a fregare chi sta peggio di voi. Nessuna delle vostre battaglie ha un senso per altri se prima non produce un tornaconto per voi stessi. Dalla politica alla religione, dal sociale alla cultura, siete delle nullità. Capaci di raccogliere firme e manifestare, salvo poi smentire con ogni vostro atto quotidiano quello che a grande voce dichiarate pubblicamente. Andate a marciare da soli, che marci siete e marci rimarrete e non vi voglio profumare. Non avete una classe media, siete una penosa e noiosa classe mediocre, incivile e selvaggia. I giornali più venduti sono quelli che trattano di gossip e i programmi televisivi più gettonati - al fine di vendere le proprie figlie come bestiame, come le vacche che sono destinate inevitabilmente a diventare, vista la vostra genia - sono i reality. Avete acclamato qualsiasi dittatore e sottoscritto qualsiasi strage, salvo poi dimenticarvene ed assurgere come vittime di un élite. Non avete un'élite, coglioni, fatevene una ragione: i vostri deputati e senatori sono delle merde tali e quali a voi, i vostri capitani d'azienda sono dei progetti andati a male dei centri di collocamento, ma che o avevano buoni rapporti famigliari o il culo l'hanno dato meglio di voi. Non solo quelli al governo (o che fanno capo all'area governativa), anche e soprattutto quelli che fanno capo all'opposizione. Da quelli oggi al governo non ci aspettiamo nulla se non quello che da anni ci danno: razzismo, esclusione, spedizioni punitive, insulti ed umiliazioni. Ma da quelli all'opposizione, quelli che si sono arricchiti con anni di Arci, Opere Nomadi, Sindacati Confederali, e sempre sulla nostra pelle, facendoci perdere diritti che ormai davamo per acquisiti, ci aspettiamo che si facciano da parte. Sono ormai troppi anni che deleghiamo le nostre lotte a persone che in teoria dovrebbero averle fatte proprie, dimenticandoci l'infima qualità dell'italiano pseudobianco e pseudocristiano: non vale un cazzo perché non ha valori che valgano.
Un popolo di mafiosi, camorristi, ignoranti bastardi senza un futuro perché non lo meritano: che possano i loro figli morire nelle culle o non essere mai partoriti. Questo mondo non ha bisogno di schiavi dentro come lo siete voi, feccia umana, non ha bisogno di persone che si inginocchiano a dei che sia chiamano potere e denaro e nemmeno di chi della solidarietà ha fatto business. Ha bisogno di altro, che voi non avete e quindi siete inutili. Dite che non è così? Ditelo ai Rom perseguitati in tutta Italia, ditelo ad Abdoul, ditelo ai 6 di Castelvoturno, ditelo a Emmanuel, ditelo ai gay massacrati da solerti cristiani eterosessuali. Ditelo a mio fratello, bastardi. Ditelo alle decine di persone vere, non zecche e pulci come voi, che non denunciano perché sanno che se vanno dalla vostra polizia bastarda e assassina li umilieranno e magari li picchieranno di più e forse li uccideranno come l'Aldro [ammazzato come un cane perché pensavano fosse un extracomunitario], e se sono donne le violenteranno, e non avranno nessuno a cui rivolgersi per essere difesi. Ditelo a quelli che rinchiudete per mesi nei vostri campi di concentramento senza alcun genere di condanna, solo per gonfiare le casse di qualche associazione che finanzierà un qualche partito, generalmente di sinistra, ditelo a quelli che lavorano per i vostri partiti e sindacati da lustri senza avere un contratto ma in nero, ditelo a quelli che si sono fidati di voi per anni, ditelo a quelli che raccolgono l'ultimo respiro di quei maiali dei vostri vecchi, e a quelli che si sfilano dalle fighe delle nostre ragazze per infilarsi in quelle larghe e flaccide delle vostre donnacce, ditelo ai nostri ragazzi che vincono medaglie e che saranno il futuro di questo paese, ditecelo, figli di puttana. Ditelo col cappello in mano, e gli occhi bassi, cani bastardi. Ma sappiate che la risposta ve l'hanno già data a Castevolturno: Italiani bastardi, Italiani di merda. Io ci aggiungo bianchi, perché il discrimine è questo. Valete poco perché avete poco da dire e nulla da dare. DaciaValent

mercoledì 15 ottobre 2008

La ex-caserma dei Vigili del Fuoco di Alessandria sia destinata a edilizia popolare.

La DESTRA chiede che l’Amministrazione Provinciale di Alessandria, non solo si preoccupi di ristabilire legalità e rispetto delle regole, facendo cessare l’occupazione abusiva dello stabile, già sede della Caserma dei Vigili del Fuoco in via Piave, ma si preoccupi di dare, in accordo con il Comune di Alessandria e con l’Agenzia Territoriale per la Casa, una destinazione d’uso consona ai gravi problemi che la Città di Alesandria attraversa in tema abitazioni.
“Come abbiamo potuto constatare nelle audizioni della Commissione Politiche Sociali, c’è carenza di abitazioni popolari in Alessandria per rispondere alle necessità di circa 600 famiglie, dice il Portavoce Provinciale della DESTRA, Avv. Aldo Rovito, che della Commissione Consiliare è il Presidente, “ma attualmente i programmi prevedono la costruzione di circa 200 alloggi. L’area della ex caserma dei Vigili del Fuoco in via Piave, potrebbe essere destinata alla costruzione di ulteriori alloggi di edilizia popolare attraverso un accordo di programma tra Amministrazione Provinciale, Amministrazione Comunale e Agenzia Territoriale per la Casa. Proporrò al sindaco di farsi carico del problema e promotore di un incontro con gli Enti interessati.”

Né destra, né sinistra (Intervista a Franco Cardini)

Segnalatomi da Gino salvi (A destra per il sociale), pubblico lo stralcio di una intervista a Franco Cardini, pubblicata sul sito di ARIANNA EDITRICE. (L'intervista è realizzata da Gabriele Repaci).
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Passando a tutt’altro argomento, Professor Cardini, lei in gioventù è stato iscritto al Movimento Sociale Italiano e poi alla Giovane Europa, il movimento transnazionale di estrema destra fondato da Jean Thiriart. Al giorno d’oggi si sente ancora un uomo di “destra”?E’ sempre stato difficile, ma ormai è impossibile definire sul serio che cosa siano la “destra” e la “sinistra”. Aveva ragione Giorgio Gaber.Comunque, per quanto riguarda certe mie opzioni, specie in politica socioeconomica, a parte l’essere di destra o di sinistra, io mi sono sempre sentito, e da parecchi anni, piuttosto di stare a sinistra; e mi succedeva del resto già quando ero un giovane missino. Eppure, non mi sono mai granché inalberato quando mi definivano “di destra”, e mi succede ancora di tollerarlo, magari replicando con qualche distinzione a mio avviso legittima.Cercherò di spiegarmi. “Destra” e “sinistra” hanno una lunga e complessa storia, dalla fine del XVIII secolo ad oggi: e che la destra valuti soprattutto la “persona” laddove la sinistra privilegia “l’individuo” e “le masse”, che la destra sia per la “comun ità” e la sinistra invece per la “società” (la famosa dicotomia di Tönnies), che la destra privilegi la “libertà” e la sinistra “l’eguaglianza” ( o quanto meno la “giustizia”), che la destra sia per il radicamento e la nazione e la sinistra per il cosmopolitismo e l’internazionalismo, che la destra sia “conservatrice” e la sinistra “progressista”, sono coppie d’opposti tutte plausibili ma in fondo lasciano il tempo che trovano: e, nel concreto processo storico, vengono sovente disattese e contraddette. Era di sinistra Guevara, e magari perfino Stalin? Era di destra Peron, e magari perfino Mussolini? Allora, Tanto vale tornare al cane che è di destra e il gatto di sinistra, al bagno in vasca che è di destra e la doccia di sinistra.Quanto a me, per dire la verità, io mi sono sentito sempre “di destra” esclusivamente nel senso che mi ha insegnato tra 1958 - quando l’ho conosciuto – e 1966 - quando la tubercolosi contratta in guerra l’ha portato via -, uno dei miei più cari Maestri, Attilio Mordini, studioso tradizionalista, cattolico e terziario francescano. Per Mordini, essere “di destra” aveva un senso metafisico, metastorico e metapolitico: significava, per ogni uomo, ancorarsi alla propria Tradizione, le scaturigini della quale sono sempre divine. Mordini, filologo e filosofo del linguaggio, insegnava che le lingue hanno origini non “naturali” e “umane”, bensì metafisiche e sacrali; e che ogni Tradizione è sacra e ogni popolo, ogni gruppo umano storicamente qualificato deve tenersi fedele alla propria. Le Tradizioni dialogano senza dubbio, e sono portatrici tutte di una Verità analoga, anzi omogenea. Ma non spetta agli uomini trovare la chiave di questa analogia, di questa omogeneità: per quanto non sia illecito cercarla con gli strumenti del sapere gnostico o di quello mistico. La Tradizioni, tutte collegate tra loro, non comunicano orizzontalmente tra loro, bensì verticalmente, in Dio. Era lo stesso insegnamento di Nicola Cusano. Nella tradizione occidentale, la fedeltà alla Tradizione si traduceva, storicamente, nella fedeltà ai valori cristiani, gerarchici e solidaristici dell’Europa prerivoluzionaria: quindi nell’opposizione rispetto ai due massimi nemici di essa, l’individualismo e il culto del danaro per il danaro, del progresso per il progresso. Il punto è che, sul piano storico, almeno dalla metà dell’Ottocento la “destra” si è sviluppata, come “luogo” d’una tendenza politica, proprio come vocazione all’individualismo, alla produzione e gestione della ricchezza, alla venerazione del progresso: danaro e progresso sentiti non già come mezzo bensì come fine, ma un fine che per sua natura escludeva qualunque altri fini e non fissava neppure un termine per se stesso. Individualismo e meccanismo produzione-profitto-consumo come mète costanti ma inesauribili del genere umano. Rispetto a questa “destra” liberale, liberista, progressista, materialista (anche se cristiana sotto il profilo formale), la Destra tradizionalista non può che sentirsi agli antipodi: anzi, sovente molto più vicino ad alcune aree della sinistra, le quali propongono obiettivi almeno in superficie e in apparenza più vicini a lei, quali il rispetto delle culture folkloriche, il solidarismo, la giustizia sociale. Il Cristo Re della Destra e il “Cristo socialista” di certe aree della sinistra si somigliano tra loro almeno quanto consenta ad entrambi di riconoscersi nella lotta contro l’Anticristo turbocapitalista; e se l’Anticristo turbocapitalista affascina alcune Chiese cristiane storiche, tanto peggio per quelle Chiese. Vi sono poi idee come quella di “Nazione”, nata alla fine del Settecento “a sinistra” (per fronteggiare il Trono e l’Altare) e finite “a destra”, ma in un tipo di “destra” che, dall’esperienza bonapartista al saintsimonismo al socialismo utopistico (soprattutto Sorel) al sindacalismo rivoluzionario, è sempre stata permeata di valori sociali. Il fascismo, per esempio, è nato da questi valori, anche se essi forse non si sarebbero mai “innescati” nella storia senza la tragedia della falsa e ingiusta pace di Versailles del 1918.Quanto a me, ogni uomo ha la sua storia. Sono arrivato al MSI in calzoni corti, tredicenne, nel 1953: erano i tempi di Trieste italiana; poi ci sono rimasto a causa del 1956 e della sollevazione ungherese. La mia educazione cattolica e l’amicizia stretta con il gruppo di Attilio Mordini mi hanno subito vaccinato da liberismo, nazionalismo e giacobinismo, i pericoli della pur schizofrenica destra neofascista missina; l’antisemitismo, eredità ambigua e rivoltante dell’ultimo fascismo, mi è sempre stato estraneo e l’ho sempre avvertito come repellente (anche quando, prima dell’affare Eichmann, in realtà se ne parlava pochissimo), grazie soprattutto sia appunto alla mia educazione cattolica, sia al magistero di Attilio Mordini che aveva intrapreso con grande ammirazione lo studio della Kabbalà, era membro di un’associazione fiorentina d’amicizia cristiano-ebraica e profondamente radicato nella rivendicazione dell’eredità ebraica come seme fecondo del cristianesimo. Semmai, dell’esperienza fascista m’interessavano le “fronde”, che sovente avevano inclinato verso simpatie socialiste, anarchiche o addirittura comuniste; penso soprattutto all’esperienza di Berto Ricci e a quello che uno studioso contemporaneo ha definito il suo “fascismo impossibile” (a mia volta, ho preferito chiamare quella mia esperienza adolescenziale un “fascismo immaginario”). Condividevo questi gusti e queste tendenze con un piccolo gruppo di amici. A questo ambiente di margine, ma culturalmente vivo e fecondo, debbo ovviamente l’uscita nel 1965 dal MSI e l’incontro – nell’ambito del gruppo europeista di Jean Thiriart – con la complessa e contraddittoria produzione intellettuale dei “fascisti” francesi, “fascisti” senza dubbio alquanto a modo loro e in molti modi tra loro differenti e opposti; e, tra tutte quelle forme, la più vicina e congeniale alla mia formazione fu il “socialismo fascista” ed europeista di Pierre Drieu la Rochelle. Ho ormai superato da oltre un quarantennio queste forme d’ispirazione e di sollecitazione, ma riconosco che ad esse debbo ancora molto: anzitutto il mio radicale, incrollabile, rigoroso europeismo. E’ ovvio che questa Unione Europea, burocraticamente oppressiva e politicamente inesistente, non mi piaccia: ma a contribuire alla costruzione di un’autentica Patria Europea non rinunzierò mai.5. Lei si ritiene anticapitalista?Ho già risposto implicitamente poco fa. Sono decisamente solidarista e apprezzo la dottrina sociale della Chiesa; se non sapessi che il socialismo è in realtà qualcosa di molto di più e di molto diverso rispetto a una semplice teoria socioeconomica, non esiterei a definirmi socialista. Ciò dichiarato, debbo tuttavia aggiungere che come forma storico-sociale il capitalismo, quando e nella misura in cui accetta di farsi “civico” (secondo del resto la “classica” indicazione di John StuartMill), può convivere e collaborare ad esempio con lo “stato sociale”, dimensione politica e istituzionale che una seria e sana destra politica dovrebbe difendere strenuamente, come sua ultima vera ridotta, contro l’offensiva delle lobbies multinazionali senza volto, senza patria e senz’altro scopo che non sia il profitto. Mi sembra invece che la stessa sinistra stia abbandonando questo spalto, correndo dietro ancora una volta – è fenomeno frequente negli ultimi anni – alla destra nella politica delle “privatizzazioni”, della quale in genere diffido e che in alcuni casi specifici mi sembra davvero sconsiderata.6. Crede che la debacle elettorale della sinistra radicale (ma anche dell’estrema destra) alle ultime elezioni politiche sia il frutto dell’americanizzazione della società italiana?Premesso che è bene non nasconderci dietro a un dito e non tacere che la débacle delle “estreme” radicali (nel senso etimologico dell’aggettivo) è stata causata anche dalla miseria del livello dei loro quadri dirigenti ed esecutivi, è chiaro che è un po’ così: anche se esiterei a chiamarla, riduttivamente, “americanizzazione”. Il fatto è che oggi le società civili e le opinioni pubbliche dei vari paesi europei sono ridotte a larve miserabili, a sacche vuote prive di qualunque informazione sulla realtà che le circonda e di qualunque aspirazione: che poi esse siano preoccupate dai segni della crisi incipiente, è prova ulteriore della loro vuotezza. Dinanzi al fallimento gigantesco del turbocapitalismo, che sta già avanzando a gran passi e che si annunzia ovviamente come crisi che colpirà prima e soprattutto i ceti più fragili, si sta reagendo o con la totale “demobilitazione delle masse” (al contrario di quel che facevano i grandi totalitarismi del XX secolo), con l’anestetizzazione totale a base di culto delle libertà individuale e dei consumi nonché di forti dosi di “società-spettacolo” e di “politica-spettacolo” che riducono i cittadini a spettatori e a consumatori, oppure con le colossali e ben congegnate campagne imbonitrici che mettono in guardia contro pericoli inesistenti (caso-limite il terrorismo islamico) e ne assumono anzi il pretesto per la riduzione delle libertà civili effettive (si pensi allo scandaloso Patriot Act negli Stati Uniti). E’ chiaro che una società così condizionata “serra al centro”, nell’illusoria sicurezza della “pace” e della “sicurezza”, magari demonizzando qualunque prospettiva alternativa, trattata da “male assoluto”. Destra e sinistra finiscono con il somigliarsi, propongono entrambe “rilancio”, “ripresa” e appunto “pace” e “sicurezza”, e si tengono a galla offrendo ai poteri che davvero contano (le varie lobbies) i servigi di un “comitato d’affari” costituito da uno staff politico e parlamentare oligarchico, garantito da competizioni elettorali sempre più addomesticate (si pensi alle ultime elezioni politiche in Italia, con liste “blindate” dalle singole segreterie e quindi un parlamento designato da ciascuna di esse, per quanto poi formalmente legittimato da un fiacco voto popolare). I politici divengono in tal modo sempre più la cinghia di trasmissione dalla volontà delle lobbies finanziarie e imprenditoriali alle sedi del potere legislativo ed esecutivo incaricate di elaborare e legittimare provvedimenti in linea con gli interessi di quelle stesse lobbies.7. Qual è la sua opinione sulla xenofobia e sul razzismo? Secondo lei è motivata la paura della cosiddetta “invasione islamica”, tesi sostenuta da vari movimenti della destra radicale e dalla Lega Nord?La xenofobia (cioè la paura del “diverso”, dell’ “estraneo”, è fenomeno che infallibilmente si verifica, in varia misura, nelle società coinvolte in rapidi e massicci fenomeni di mutamento sociodemografico: si fonda su istinti in fondo “naturali” e, a piccole dosi, è come i germi del morbillo o della scarlattina: finisce col creare una lieve infezione che alla lunga ha effetto immunizzante. Se le dosi si fanno massicce o i tempi di esposizione al contagio si fanno intensi, il discorso cambia. Sappiamo bene, da molti e illustri esempi storici, che la “paura dell’Altro” (l’ebreo che ti seduce la donna, il marocchino che ti ruba il lavoro e così via…) servono da tempo come alibi per impedire che la gente si renda conto con maggior chiarezza e precisione delle peraltro complesse dinamiche sociali che dominano i processi storici in tempi di crisi. Un esempio. I gruppi di estrema destra o della Lega Nord sono sostanziosamente finanziati da vari anni, tra l’altro, da imprenditori di pochi scrupoli i quali chiudono (contro la legge) le loro fabbriche in Italia, vanno a riaprile in luoghi dove la manodopera è molto più a buon mercato (la Romania, l’Albania ecc.) e in questo modo sottraggono – cioè, letteralmente, rubano – lavoro agli italiani e al tempo stesso si arricchiscono sfruttando la sottopagata manodopera euro-orientale: dopo di che, hanno interesse a che i responsabili della rarefazione del lavoro in Italia siano identificati negli extracomunitari. E’ d’altronde un dato obiettivo che l’alto afflusso di extracomunitari clandestini crea ogni sorta di problemi e concorre a far crescer varie forme di microdelinquenza. Si deve lottare contro questi fenomeni con rigore: e le leggi al riguardo ci sono; se non ci sono, si possono sempre fare. Chi parla al riguardo di “tolleranza zero” esprime un parere assurdo: dal momento che dovrebbe essere sottinteso che, nei confronti di qualunque forma di delinquenza, la tolleranza in un stato di diritto deve per forza essere sempre “zero”. Quanto all’invasione islamica, semplicemente: non esiste. In Italia, paese di sessanta milioni di abitanti, i musulmani non sono nemmeno un milione: dunque non arrivano al 2% , di cui circa 10.000 (vale a dire l’1% di loro) sono italiani convertiti, che per il fatto di essere diventati musulmani non hanno certo cessato di essere “occidentali”. Molti di questi musulmani sono cittadini italiani, magari da poco, hanno casa, famiglia, lavoro; altri sono immigrati in regola con la legge. Una minoranza tra loro fa attività sociale, culturale, e in pochi e ristretti casi (noti e controllati) anche proselitistica. Da sette anni, cioè dall’indomani dell’11 settembre del 2001 a oggi, i casi di musulmani fermati per attività terroristica si contano sulle dita delle mani, e sono stati poi quasi tutti regolarmente rilasciati senza che al loro carico emergesse un minimo d’indizio concreto. Nel nostro paese, non c’è mai stato alcun attentato che sia stato fatto risalire a una matrice “islamico-fondamentalista”. Ci sono imprenditori musulmani e qualche intellettuale musulmano, ma non mi sembra che la loro attività sia particolarmente presente sul nostro territorio. A che cosa allude chi parla dei “minareti” che andrebbero a “disturbare” il nostro paesaggio? Di moschee con minareto, in Italia c’è solo quella di Roma, che non disturba un bel niente: anzi, è architettonicamente apprezzabile. Il paesaggio lo hanno distrutto da mezzo secolo a questa parte i nostri speculatori: basti vedere come sono ridotti alcuni tratti del nostro litorale e alcune nostre periferie cittadine. Io vado a messa ogni domenica: ma, siccome per il mio alvoro mi muovo molto, frequento differenti chiese in varie città d’Italia. Non mi è mai capitato, in tanti anni, di trovarmi davanti a un picchetto di musulmani che distribuisse materiale proselitistico. Le nostre tradizioni si vanno autodistruggendo, è vero: ma si tratta di un processo lungo, iniziato da molto tempo. L’Islam non c’entra. Le tradizioni non si distruggono dall’esterno, franano sempre dall’interno. Del resto, l’islamofobia è un po’ passata di moda: i centri che la promovevano ora hanno interessi di altro genere, guardano alla Russia e alla Cina. Sempre cercando il Nemico Metafisico da sbattere in prima pagina per impedire alla gente di accorgersi che il vero pericolo, il vero nemico, s’identifica con quelle forze che ormai da anni gestiscono il turbocapitalismo e la speculazione finanziaria; quelle stesse che, ora che il petrolio sta esaurendosi, sono già partite addirittura all’appropriazione e alla privatizzazione dell’acqua.8. L’intellettuale transalpino Alain de Benoist ha sostenuto molte volte del concetto di Impero. Secondo de Benoist la crisi dello Stato Nazione, troppo grande per rispondere alle aspettative quotidiane della gente e troppo piccolo per far fronte alle problematiche che si sviluppano oramai su scala planetaria, richiederebbe di ripensare l’Europa in termini Imperial-federali. Qual è la sua opinione sul tema dell’Europa Imperiale?“Impero” è una gran bella parola, ma temo che la gente la confonda con il suo pseudosemiomonimo, “imperialismo”, che al contrario è bruttissima. L’empire, c’est la paix, diceva Napoleone III: ma alludeva alla repubblica retta da un monarca e da una dinastia in quanto garanzia contro il disordine. Oggi, intenderei la parola “impero” – in armonia del resto con i suoi esempi storici, o alcuni fra essi: l’impero romano, la “monarchia di Spagna” – nel senso di un’auctoritas suprema e indiscussa che sia giudice e regolatrice d’una pluralità di soggetti diversi tra loro, ciascuno retti da proprie istituzioni e armonicamente conviventi. In questo senso, l’ “impero” sta all’esatto opposto delle compagini magari eterogenee, ma tenute insieme dall’autorità e dalla forza di uno stato egemone, che naturalmente tende a gestirne politica ed economia secondo i suoi interessi. “Europa Imperiale” è un’altra bella espressione: sarebbe stato l’ideale – credo sostenuto in buona fede – da Napoleone: un’unione di differenti nazioni sotto l’egida di una potenza garante e protettrice che però accetti di non giocare (magari passato il momento della necessaria emergenza) un ruolo egemone. Ma quel disegno si è infranto ancora prima di Waterloo: è morto nelle pianure russe e tra le cannonate della battaglia di Lipsia. Una potenza egemone è comunque necessaria, di solito, a creare formazioni federali o confederali: si pensi alla storia dell’Italia e della Germania nell’Ottocento, con i loro Piemonte e Prussia. Ma, fenomenologicamente, non è sempre detto. Anche Hitler aveva un’idea “napoleonica” dell’”Europa Imperiale”, l’idea alla quale fu guadagnato Drieu La Rochelle: ma il suo impero era senza dubbio più nettamente e pesantemente egemonia germanica di quanto Napoleone non concepisse l’egemonia francese. Thiriart, neobonapartista e anche un po’ filohitleriano (quanto meno sotto il profilo del suo europeismo), pensava in termini un po’ astratti a una “Europa-Nazione”. Ma il suo concetto era rozzamente elaborato e stoticamente poco realistico: gli statunitensi possono pensare a se stessi come alla “Nazione americana”, ma i singoli states hanno una storia diversa, più breve e fragile di quelli europei; e c’è inoltre un sostanziale monolinguismo, valore importantissimo. Pensare a un’ “Europa-Nazione” è impossibile. Credo si possa invece pensare ad essa come a un Grossvaterland che sintetizzi e riassuma, senza annullarli, i vari Vaterländer nazionali o anche etnici. Ma per questo è necessaria una struttura federale o confederale: l’Unione Europea non è nulla di tutto questo: e non lo sarà mai finché i singoli stati non si decideranno a creare una vera compagine istituzionale cui affidare, cedendola, una parte dei poteri detenuti fino ad oggi dai singoli governi, soprattutto in politica estera e nella difesa. Senza leggi federali valide dappertutto, una comune politica estera e un esercito comune, non si costruisce alcuna unità né federale, né confederale. Nell’Unione Europea attuale – che non è “dei popoli”, bensì “dei governi” – di davvero comune c’è solo la moneta. Necessaria, fondamentale: ma non sufficiente.9. Qual è la sua opinione sullo Stato d’Israele?Sia chiaro anzitutto che quanto ho detto circa la mia ammirazione per l’ebraismo, che avverto come profondamente intrinseco al cristianesimo, non influenza in alcun modo – a parte un’istintiva simpatia – il mio giudizio sullo stato d’Israele. Ho anzi più volte criticato, a anche con durezza, le scelte di questo o di quel governo israeliano. Ciò premesso, la mia visione favorevole a Israele necessita di una presentazione storica sintetica, ma tale da non lasciar adito a malintesi.Lo stato d’Israele è nato da un lungo e tenace sogno, quello del movimento sionista dell’Ottocento: un movimento nazionalista come tanti ce n’erano in quell’età romantica ch’è stata l’età del nascere delle nazioni contemporanee. Tale sogno è divenuto gradualmente realtà in seguito a una serie di congiunture che si debbono conoscere, se si vuol farne seriamente la storia: il favore dell’impero ottomano che aveva tutto l’interesse, tra Otto e Novecento, a una qualificata colonizzazione dell’area palestinese (e i coloni sionisti erano ottimi: corretti, colti, pagavano puntualmente le terre che compravano e gli stipendi che corrispondevano ai lavoratori arabi, aiutavano spesso le popolazioni locali, erano ben visti); l’appoggio di una parte consistente dell’ebraismo della diaspora; il sostegno di molti governi europei.Tuttavia, la fine dell’impero ottomano con la prima guerra mondiale, l’atteggiamento ambiguo delle potenze europee cointeressate a quell’area (Francia e soprattutto Inghilterra), il sorgere d’un nazionalismo arabo deluso dalle promesse non mantenute d’unità nazionale avanzate soprattutto dagli inglesi stessi – e ben presto tradottosi anche in un sentimento d’inimicizia nei confronti dei coloni ebrei, tra l’altro sentiti come “occidentali” complici degli inglesi, il che fra l’altro non era vero -, l’emergere di un forte e inaspettato antisemitismo politico in Europa e infine la tragedia della shoah mutarono fortemente il quadro di armonico sviluppo d’una comunità ebraica coloniale che si apprestava a cercare nuovi sbocchi istituzionali nei quali inquadrare la sua compagine. La cattiva coscienza europea dopo l’olocausto e il pericolo costituito, per le potenze occidentali, dagli stati arabi che con l’insorgere della “guerra fredda” si andavano orientando in senso sempre più occidentale, determinarono un accelerarsi della situazione: la ricerca di equilibrio fra i coloni ebrei e i residenti palestinesi – musulmani o cristiani che fossero – insediati nella zona, cedette il passo nel ’48 – dopo preoccupanti avvisaglie che già si erano avute negli Anni Venti e Trenta – a un precipitare della situazione. La comunità ebraica, tempestivamente, si eresse in “stato d’Israele”; i palestinesi, divisi e disorientati, forse anche mal consigliati, non vollero o non seppero fare altrettanto, confidando tra l’altro in una “solidarietà araba” che nel tempo si sarebbe rivelata inefficiente o fallace. Israele seppe crearsi una sua solida compagine statale e militare, anche appoggiata dalle rimesse di denaro dell’ebraismo “della diaspora” e, almeno dopo la guerra del 1967, dal costante appoggio diplomatico degli Stati Uniti che le fornì la copertura diplomatica necessaria a consentirle di disattendere quelle risoluzioni delle Nazioni Unite che le avrebbero impedito di raggiungere una continuità territoriale garantita dai “presidii” di due aree non annesse al territorio metropolitano d’Israele, bensì “occupate”, i territori galileo-samaritano-giudaici, cioè i cosiddetti “territori occupati”, addossati al Giordano (con il relativo controllo idrico), e le alture del Golan. Tutto ciò, pagando il prezzo di quello che alcuni giovani storici “revisionisti” israeliani hanno definito “il peccato originale d’Israele”: l’espulsione sistematica degli abitanti palestinesi da alcune terre, che va peraltro giudicata alla luce di un movimento qualitativamente e quantitativamente diverso ma speculare: la cacciata (senza risarcimento dei beni sequestrati) di molti ebrei, all’inizio della crisi israeliano-palestinese, dai paesi arabi nei quali essi avevano posizioni e assi patrimoniali sovente di rilievo: Egitto, Giordania, Siria, Iraq. Altro elemento d’inciampo: la “legge del ritorno”, secondo la quale qualunque ebreo del mondo (nato cioè da madre ebrea) è naturaliter cittadino d’Israele, solo che lo voglia. Se, in ipotesi assurda, tutti i circa trenta milioni di ebrei della diaspora decidessero di usufruire questa legge e rientrare in Israele, basterebbero frontiere dal Nilo all’Eufrate all’Oronte per ospitarli tutti?Credo pertanto che oggi il diritto d’Israele a vivere e a mantenere il suo posto tra le libere nazioni del mondo sia definitivamente, irreversibilmente acquisito e innegabile: al punto che lo stesso chiedersi se esso sussista è assurdo. Ne sono sempre stato un convinto sostenitore, come ho dimostrato in tutti i miei scritti (richiamo in special modo l’Introduzione al libro edito anni fa dalla Dedalo di Bari e la monografia Gli ebrei, popolo eletto e perseguitato). Tale diritto va però corroborato con l’instaurazione di una vera e solida pace, impossibile dopo un conflitto durato ben oltre mezzo secolo senza il soddisfacimento delle legittime richieste della comunità palestinese ormai eretta in Authority amministrativa, ma non ancora in stato indipendente e sovrano. Queste richieste danno luogo a un contenzioso riassumibile in quattro punti: 1. Spartizione della città di Gerusalemme, cui né israeliani, né palestinesi vogliono né possono rinunziare (anche se in realtà i palestinesi si acconterebbero di una porzione modesta e periferica di essa; a parte, resterebbe da esaminare il problema dell’internalizzazione dei Luoghi Santi non ebraici, cioè cristiani e musulmani: che però interessa il solo ristretto perimetro della città storica); 2. Ridistribuzione del territorio isrealiano-palestinese in modo che, con modestissimi ritocchi e mantenendo a Israele i territori acquisiti dal 1948 a oggi, si possa garantire la necessaria e indispensabile continuità territoriale al futuro stato palestinese; 3. Ristabilimento di un corretto confine tra i due stati con relativa libertà di circolazione per i molti palestinesi che lavorano in Israele, eliminazione appena possibile del “muro” e soluzione del problema costituito dalle colonie ebraiche clandestine insediate in territorio palestinese; 4. Attuazione di un piano economico-finanziario di risarcimento delle famiglie tanto ebraiche quanto palestinesi che hanno perduto la casa, la terra e gli averi dal 1948 ad oggi (con relativo abbandono delle pretese di “ritorno”, comprensibili e perfino toccanti, ma inattuabili). Per l’attuazione di questo piano generale, sarebbero necessari la mediazione e l’impegno (anche economico) della comunità internazionale tutta. E’ un’esigenza costosissima, nonché lunga e difficile da attuarsi. Ma finché non l’adotteremo il teatro israeliano-palestinese sarà preda degli opposti fondamentalismi e la malapianta del terrorismo, che si alimenta del disagio nato da quella situazione, non sarà sradicata.E’ ovvio che una franca, aperta e irreversibile accettazione del diritto d’Israele a vivere liberamente e pacificamente implica il diritto della comunità internazionale a dialogare correttamente e serenamente con essa. Israele deve accettare oggi appieno il suo ruolo di paese mediterraneo e vicino-orientale, entrando in franco e leale colloquio con i paesi confinanti e controllando con cura le tentazioni, che al suo interno sono forti, di atteggiarsi a “sentinella avanzata dell’Occidente”. Allo stato attuale delle cose, il sostegno unilaterale statunitense di cui essa ha in molti casi goduto le ha impedito di sviluppare un’attività diplomatica aperta anche in altre direzioni; e ciò, unito al fatto ch’essa è l’unica potenza nucleare di tutta l’area, ha creato uno stato di tensione, di disagio e di sospetto che non può costituire la base d’una pace durevole. Questi sono alcuni dei problemi di cui la società civile occidentale dovrebbe prendere concretamente atto, se non vuole ridurre il suo assenso o il suo dissenso nei confronti della politica israeliana a un atteggiamento non troppo dissimile da una questione di tifo calcistico. Il problema non è essere “pro” o “contro” Israele, bensì prendere atto di concrete questioni e chiedersi come potrebbero essere risolte.

martedì 7 ottobre 2008

In classe col computer(Anche il Portogallo ci supera!)

Da LA STAMPA di Martedì 7 ottobre: Addio quaderno, in classe col pc (Primo esperimento europeo in una elementare del Torinese)
Con questo titolo viene presentata l’iniziativa sperimentale di una classe quinta della elementare Don Minzoni di Rivoli e di due classi terze di Pavone Canadese, nelle quali gli alunni saranno, tutti, dotati di un piccolo personal computer portatile, a basso costo, tutto di produzione italiana, che userà come noi usavamo il quaderno. L’articolista enfatizza l’iniziativa, scrivendo: ”per la prima volta in Europa, gli scolari lavoreranno organicamente con lo strumento informatico nella loro classe….”.
Tanta enfasi sembra un po’ fuori luogo, sia perchè la sperimentazione riguarderà solo tre classi in tutta la Regione Piemonte (75 alunni?), sia perché nello stesso quotidiano, nella stessa edizione di Martedì 7 ottobre, avevamo letto, qualche pagina prima, un altro articolo, dal titolo: Portogallo, a scuola con il pc low cost”, in cui si riferisce come “ben 500.000 alunni dai 6 ai 11 anni useranno da quest’anno”Magalhaes” (Magellano, in onore del navigatore lusitano che per primo circumnavigò la Terra nel 1521). Un pc più che low cost: da zero a 50 euro a seconda del reddito familiare. Il pc è prodotto in Portogallo, permette di navigare anche attraverso Wi-fi, sistema operativo Windows Xp, usa Office 2007, Microsoft Student Learning Essencial e Microsoft Encarta: costo al governo di Lisbona: 180 Euro. Conclusione: Portogallo batte Italia 500.000 a 75.
Ma noi abbiamo il grembiulino e il maestro unico!

SOLIDARIETÀ alle enclave SERBE del KOSOVO

Pubblico volentieri questo appello pervenuto dagli amici dell'Araldo di Torino, ricordando come, l'intervento "umanitario" in Kosovo, fu necessitato a seguito dello scellerato intervento dell'ONU, avallato, per l'Italia, dal "guerrafondaio" D'Alema contro uno stato indipendente, la Serbia.

A distanza di nove anni dall’intervento umanitario
dell’Onu, il cui fine era la pacificazione dell’antica
terra serba di Kossovo e Metohija garantendo un'esistenza
pacifica per la popolazione serba e l'autonomia politica
per la minoranza albanese, i fatti si sono evoluti
diversamente.

I guerriglieri dell’UCK - signori della guerra - si sono
lasciati dietro una pesante fardello: antichi monasteri e
chiese rase al suolo, cimiteri distrutti e profanati,
villaggi bruciati, donne violate e bambini assassinati. A
tale genocidio è seguito un esodo della popolazione serba,
sfollata e costretta a sopravvivere, aspettando una
giustizia che è sempre più un miraggio.

Siamo testimoni impotenti dinanzi a una pulizia etnica
avallata dalla comunità internazionale tramite un silenzio
complice. La popolazione serba rimasta in Kossovo
testimonia la volontà di non arrendersi dopo un millennio
di partecipazione alla storia e alla cultura dell'Europa,
vivendo in situazione di costante pericolo e in condizioni
di precarietà.

Donne e bambini costretti in villaggi come fossero in oasi
protette, circondati da popolazioni ostili e sotto il
rischio costante di aggressioni, che risulterebbero fatali,
a cui si oppone di fatto spesso solo qualche sparuto
presidio dell’Onu.

Solidarité Kosovo è un’organizzazione non governativa
nata in Francia, che si prodiga al loro sostegno,
raccogliendo fondi e materiale che porta direttamente in
loco organizzando apposite missioni umanitarie
(l’attività svolta è visibile al sito
www.solidarite-kosovo.com).

L’associazione ha recentemente dato vita alla sua filiale
italiana che promuove una campagna di raccolta in previsione
della prossima missione umanitaria nel dicembre 2008.

L’obbiettivo è raccogliere giocattoli e vestiario per i
bambini (0 -15 anni) e incentivare i versamenti in denaro da
effettuarsi direttamente sul conto indicato nel sito stesso
(alla pagina “aider” ). Un dono, un piccolo atto di
solidarietà, che può infondere grande gioia nei bimbi
che lo ricevono, facendoli sentire meno soli, ma anche un
incoraggiamento ai genitori a farli crescere nelle terre
dei loro avi, secondo le proprie usanze.

Aiutarli non è solo un dovere morale o un obbligo verso il
sofferente, ma un pegno per future generazioni europee, per
dire che ancora ci siamo e ci saremo, nonostante i soprusi,
a prescindere dalla violenza.

Aiutaci ad aiutarli!

La raccolta avviene:
in via M. Spanzotti 7/a, Torino:
Venerdì dalle 21:00 alle 23:00 : Sabato dalle 16:00 alle
19:00

Per informazioni: telefono 011-3391928 (lun. e ven. 21-23,
sab. 16-19)
e-mail solidaritekosovoitalia@yahoo.it

TUTTI CON FINI(?) di Faber

TUTTI CON FINI(?)
Il dibattito è stato intenso, ma breve e non risolutivo. Ora - a meno di un mese dal diktat finiano - sia gli ‘anti-antifascisti’ che i ‘neo-antifascisti’ fanno finta di nulla e tacciono. Intanto, i cimeli sono rimasti al loro posto nelle case e nelle sezioni, il saluto legionario è ancora protagonista, le ‘celtiche’ restano al collo e tra ventidue giorni sarà il momento delle libagioni celebrative.Nello stilare un bilancio di quel sabato ad ‘Atreju’, escluso lo scontato e ridondante consenso degli ‘afecionados’, l’ennesima capriola finiana ha costretto taluni a compiere spavaldi sforzi dialettici (fino a provare noia nel «parlare di fascismo e antifascismo») per non entrare in contrasto con le sue parole e per tacitare i dissensi, confidando nell’imminente confluenza nel Pdl, dove si prevede non sarà obbligatorio dichiararsi antifascisti. Mentre in Alleanza Nazionale è arrivato il ‘diktat bis’ del ministro Altero Matteoli: «Chi non condivide le parole di Fini si mette fuori da An».Per trovare un clima entusiastico bisogna spostarsi sul fronte avverso, in quel mondo culturale che ha trovato un inaspettato alleato e si è dimostrato subito riconoscente: «Le convinzioni di Fini - ha scritto Gianfranco Pasquino, docente universitario a Bologna e collaboratore de “l’Unita” - sono cambiate nel corso del tempo in maniera coerente e sono approdate al riconoscimento di verità storiche che stanno a fondamento della Repubblica italiana» (1).Maggiormente entusiasta, Luciano Canfora (docente universitario a Bari, nel comitato scientifico della Fondazione Gramsci e frequentatore assiduo dei congressi dei Comunisti italiani): «Non so dove Fini abbia studiato recentemente, ma definire così l’antifascismo è molto avanzato» (2).Un’intellighenzia che, in perenne difficoltà al cospetto del montante ed illuminante filone storico ‘revisionista’, ha trovato un favoreggiatore, subito abbracciato e coccolato, fino a concedergli un consenso pressoché unanime: «Le sue dichiarazioni – spiega Nicola Tranfaglia, docente universitario a Torino e nel comitato scientifico della Fondazione Gramsci - in qualche modo concludono, perché vanno in direzione opposta, il percorso avviato da Luciano Violante nel ’96, con l’apertura ai ‘ragazzi di Salò’. Un discorso infausto. E’ significativo che ci sia questo rovesciamento di ruoli e che arrivi la smentita di Fini alle parole di Violante» (3).Lo storico, ex deputato dei Comunisti Italiani, è stato prontamente supportato da Claudio Pavone (docente universitario a Pisa, vicepresidente dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione ed ex partigiano), che ha considerato particolarmente importanti le dichiarazioni di Fini «perché spiazzano tutti coloro che, da qualche anno, hanno fatto del revisionismo la propria bandiera e considerato la contrapposizione fascismo-antifascismo un’anticaglia» (4). E da Piero Sansonetti, direttore del quotidiano “Liberazione”, che tra le conseguenze più rilevanti ha individuato «una battuta di arresto della campagna revisionista avviata dalla destra italiana con lo scopo di smontare la “Civiltà politica” prodotta in Italia dal 1945 in poi. L’iniziativa di Fini tira il freno e ostacola l’offensiva revisionista» (5).Quindi, un inaspettato Fini, in versione ‘quinta colonna’, che conquista profonda riconoscenza per il contributo offerto al contrasto della revisione storiografica, infatti - secondo Pasquino - «incidentalmente, taglia l’erba sotto i piedi anche ad alcuni giornalisti revisionisti i cui libri, critici dell’attività dei partigiani, che certamente non fu sempre impeccabile, hanno avuto grande successo di pubblico (meno, in verità, di critica)» (1). Al suo fianco addirittura un vecchio nemico, l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: «Le sue riflessioni fanno piazza pulita di certe smanie revisioniste divenute ormai insopportabili» (7). Un clima talmente celestiale da farlo diventare, dopo tanti anni di cattivi esempi di destra, anche un ‘buon maestro’ per eventuali ‘giamburrasca’ con istinti ribelli: «La lezione merita di essere imparata rapidamente anche dai suoi compagni di partito ai quali il successo inopinatamente raggiunto e le cariche fortunosamente conseguite sembrano avere dato alla testa» (1).Il Presidente della Camera è indiscutibilmente lanciato verso nuovi orizzonti ed il suo futuro è ben visibile dietro le sue esternazioni. «Forse rispondono - azzarda Canfora - anche a una serie di esigenze interne: tenere a bada i colonnelli, candidarsi alla successione di Berlusconi» (2), mentre Bruno Gravagnuolo (il Cosacco de “l’Unità”, come lo ha chiamato Giampaolo Pansa) lo interpreta in chiave continentale come un «tentativo di ritagliarsi un ruolo decente di leader della destra democratica europea, con la sua revisione entra alla grande nel Ppe e può aspirare a concorrere da Premier» (6).Nel suo itinerario storico Fini ci ha finora abituato a funamboliche evoluzioni, perciò non ci si può illudere che il suo cammino sia già terminato. In previsione di altre sorprese, potrebbe servirgli tener conto della saggia considerazione di un altro storico, Arrigo Petacco: «Quando comincia la guerra, la prima vittima è la verità: quando finisce, le bugie degli sconfitti vengono smascherate e quelle dei vincitori diventano Storia» (8).
Faber
1) Agenzia AGL - L’Espresso, 14 settembre 2008

2) Left, 18 settembre 2008
3) Corriere della Sera, 14 settembre 2008
4) Liberazione, 18 settembre 2008
5) Liberazione, 14 settembre 2008
6) l’Unità, 14 settembre 2008
7) Corriere della Sera, 15 settembre 2008

8) Il Tempo, 14 Settembre 2008

A questo punto non rimane che guardarci un interessante video, collegandoci con:

http://www.storace.it/2008/10/03/iene/

.......... e farci due risate............

LA DESTRA SI BATTERA’ PER SALVAGUARDARE IL POTERE D’ACQUISTO DI SALARI E PENSIONI

Tavola Rotonda organizzata dalla Destra Alessandrina sul tema “Carovita: che fare?”. Moderatore: Gigi Moncalvo, partecipano: Patrizia Garrone per l’Associazione Commercianti di Alessandria, Mario Gatto per Mondoconsumatori, l’avv. Rovito Presidente della Commissione Consiliare Politiche Sociali del Comune di Alessandria.
Provocati, più che moderati da Gigi Moncalvo, il noto giornalista anche televisivo, i tre partecipanti alla tavola rotonda hanno espresso da tre diversi punti di vista le normi difficoltà in cui sempre più vasti strati della popolazione si trovano. Il problema della diminuzione del reddito disponibile per i consumi colpisce anche la categoria dei commercianti, che vedono così ancor di più ridotti i loro utili, in conseguenza della diminuzione del volume d’affari, come ha detto la rappresentante dei commercianti, categoria che si vede sempre più stretta tra l’esosità del fisco e la stretta del sistema bancario. Le associazioni dei Consumatori, ha detto il dott. Gatto, possono fare molto, ma occorre che le amministrazioni locali si facciano promotrici di iniziative serie, a partire da un tavolo di concertazione, per calmierare i prezzi, almeno dei generi alimentari di prima necessità. Rovito, ricordando quanto emerso dalle audizioni svoltesi presso la Commissione Politiche Sociali del comune di Alessandria, circa lo stato di povertà relativa, nel quale sempre più ampio è il numero delle famiglie alessandrine coinvolto, ha preannunciato una serie di proposte che vanno dalla proposta di legge regionale per il Mutuo Sociale per l’acquisto della prima casa, alla proposta di costituire un Ristorante Sociale e un Banco Alimentare Comunale, all’istituzione di un Fondo di Garanzia per l’acquisto con pagamento rateale dei libri di testo delle scuole Medie.
A conclusione del dibattito è intervenuto il Coordinatore Regionale della DESTRA, on.le Roberto Salerno, che, dopo aver tracciato in sintesi gli obiettivi che la destra, sai pone, ha preannunciato la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, per collegare all’inflazione effettiva, e non a quella programmata, gli incrementi di salari e pensioni. “Solo attraverso un meccanismo di rivalutazione delle pensioni e salari, si potrà restituire a milioni di lavoratori e di pensionati il livello di reddito che avevano prima dell’introduzione dell’Euro, ha puntualizzato, l’on. Salerno, “in tal modo si difende il potere d’acquisto della parte meno abbiente della popolazione, si mantiene il livello dei consumi e combatte la recessione economica incombente: questa è la ricetta della Destra, per superare le attuali difficoltà economiche dell’Italia”.

Si è svolto domenica 28 Settembre il 1° Congresso Provinciale della DESTRA Alessandrina

Aldo Rovito eletto portavoce provinciale. I nomi dei 7 delegati al Congresso Nazionale

Si è svolto domenica scorsa, presso il locale WID CATS in San Michele, il 1° Congresso Provinciale della Destra, il partito del Senatore Francesco Storace, convocato per l’elezione del Portavoce Provinciale e dei 7 delegati al Congresso Nazionale del prossimo Novembre in Roma.
All’inizio dei lavori hanno portato il loro saluto all’assemblea l’On. Franco Stradella, il Consigliere Regionale Ugo Cavallera, i Presidenti Provinciali di F.I. e di A.N., Mario Berruti e Marco Botta, il segretario di Fiamma Tricolore Maurizio Zingales, il segretario cittadino dell’UDC, Bartolomeo Mazzucca e i responsabili delle liste civiche “Per la nostra Città”, Mauro Morando e “Prima Alessandria”, Evaldo Pavanello.
Nel corso del dibattito è stato riaffermato da tutti gli intervenuti la necessità in Italia e in Europa di un partito di Destra per riaffermare idee e valori, che non possono confondersi in un indistinto contenitore, ma debbono avere una propria autonoma rappresentanza, proprio per rafforzare la destra di un centro destra, con il quale “vogliamo dialogare da pari a pari, in vista di eventuali alleanze per le elezioni amministrative della prossima primavera” come ha detto in particolare l’Avv. Rovito nel suo intervento.
Conseguentemente, da parte di tutti è stato espresso consenso ed apprezzamento per la mozione congressuale “Vivere di Idee, per non morire di potere” di cui è primo firmatario il senatore Francesco Storace.
Dopo lo scrutinio delle schede elettorali, la proclamazione degli eletti: l’avv. Aldo Rovito, è stato eletto all’unanimità Portavoce provinciale, mentre i 7 delegati eletti per il congresso Nazionale sono: Mauro Tasso di Novi Ligure, Luciana Crivellini, Marco De Michiel, Paola Milan e Fabio Robotti di Alessandria, Carlo Montepiano di Casale Monferrato e Gino Santapà di Valenza.